giovedì 20 ottobre 2011
Preghiera di Comunità Una – Traccia per la riflessione – Gruppo Fuoco
Letture della XXX domenica del Tempo Ordinario, anno A


L’amore al centro della vita

(Mt 22, 34-40)
I farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il più grande comandamento?». 
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

Proseguono, nella lettura del Vangelo di Matteo di questa domenica, le schermaglie di Gesù con le autorità religiose, che cercano un pretesto per screditarlo e condannarlo, giusto subito dopo che le folle avevano cercato di proclamarlo re. Stavolta però, nel rispondere a una domanda che doveva essere un trabocchetto, Gesù va al cuore del suo insegnamento, e proclama la centralità del “comandamento” dell’amore. È così centrale che tutto il resto risulta essere una diretta conseguenza di questo, e senza di questo tutto il resto non sta più in piedi, si sgretola, va in briciole.

Il brano è molto breve, eppure ci dà il modo di tentare una scalata virtuale alla vetta dell’insegnamento di Cristo. Scalata virtuale perché qui possiamo solo buttare un occhio al percorso da fare, vederne i passaggi e i panorami, ma poi la salita vera la dobbiamo fare nel quotidiano, passo dopo passo.
Il punto di partenza ce lo suggerisce la frase «un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova». I farisei interrogano Gesù, ma solo per metterlo alla prova, per vedere di coglierlo in fallo. Sì, perché loro in effetti non avevano alcun bisogno di dritte su come vivere e comportarsi: loro sapevano già tutto, conoscevano la Legge di Dio a menadito. I farisei si conservano, non si spendono mai per gli altri; si perfezionano, ma non cambiano; discutono, ma difendono la loro verità e le loro ragioni. L’atteggiamento è quello classico dell’adulto autosufficiente: chi sta a sentire? E noi, come ci sentiamo: arrivati, “capiti”? Il punto di partenza, o se vogliamo l’attrezzatura minima indispensabile per la salita, le scarpe, è l’atteggiamento di come andiamo incontro alla Parola di Dio. Non andiamoci pensando di avere già le risposte, o magari cercando le conferme a quello che già credevamo fosse la verità buona per noi, l’interpretazione comoda per noi. Coltiviamo invece il desiderio di scoprire nuove indicazioni che ci aiutino a correggere la rotta e a orientarci con meno incertezze nella direzione incontro a Dio.

Il dottore della Legge chiede: «Maestro, nella Legge, qual è il più grande comandamento?». La domanda fatta a Gesù doveva essere un tranello, ma forse rispondeva ad un vero bisogno, quello di focalizzare meglio l’attenzione nella grande mole di regole. La Legge ebraica era composta di 613 comandamenti: 365 positivi (tanti quanti i giorni dell’anno) e 248 negativi (tanto quante erano le membra del corpo umano secondo la cultura del tempo). E tutti andavano osservati, secondo la tradizione più rigorosa! Forse, tra i 613 precetti da osservare, i farisei ritenevano che quello più importante fosse il riposo del sabato, l’unico osservato da Dio stesso, e volevano vedere se Gesù rispondeva giusto. Noi magari sorridiamo, ma anche nella nostra educazione cristiana ne abbiamo ricevute tante di regole, comandamenti, precetti, sia da parte del catechismo ufficiale che dalla cultura popolare, come il segno della croce passando davanti a ogni cappellina, o cimitero, o chiesa, o ambulanza o carro funebre, ecc. Per questo mi ero molto stupito, a vent’anni, quando avevo scoperto le lettere di san Paolo e le sue accorate battaglie per smontare il sistema dell’osservanza della Legge. Frasi “estreme” come: “Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la legge.” (1Cor 15, 56) oppure “abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2, 16). San Paolo in realtà non condanna totalmente la legge, ma ne dichiara conclusa la funzione: “La legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo.” (Gal 3, 24-25). E in effetti vediamo nel Vangelo di oggi che la risposta di Gesù scardina il sistema delle regolette e punta diritto al cuore della questione: tutta la Legge è una conseguenza dell’unico grande comandamento, quello dell’amore. Le parole di Gesù cancellano l’idea che la religione consista in una serie di regole da osservare: vivere secondo Gesù significa piuttosto adottare un atteggiamento basilare che permea l’intera vita, e guardare a Dio e agli altri uomini con amore. Questo è il primo passaggio della salita. Poi, nella vita pratica, osserveremo anche regole e precetti, la domenica, il digiuno, il segno della croce, inginocchiarsi..., ma con la consapevolezza che quel che conta è quello che c’è nel cuore, l’amore per Dio e il prossimo. L’osservanza di norme e precetti non serve assolutamente a salvarci, ma ha senso solo come espressione dell’atteggiamento interiore.

Ma rivediamo ancora la risposta di Gesù: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti». Gesù cita due comandi che erano ben noti, ripetuti nelle preghiere quotidiane, ma situati in due libri diversi: il primo nel Deuteronomio e il secondo nel Levitico. Gesù invece li accosta tra loro, li mette assieme. Dicendo che il secondo è “simile” al primo, Gesù in pratica dice che il secondo è un modo diverso di esprimere il primo, che i due comandi sono uno solo. Del resto, nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama” (Gv 14,21), e poco dopo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati.” (Gv 15,12). Ecco il secondo passaggio: Dio ci chiede di essere concreti, di amarlo nei fatti, e i fatti stanno nell’amore concreto e quotidiano verso il prossimo: dall’amore per il prossimo si misura l’amore per Dio stesso.
Nella prima lettura, presa dal libro dell’Esodo, abbiamo visto che Dio si mette dalla parte dei più deboli, del forestiero, della vedova, dell’orfano, dell’indigente, e minaccia gravi punizioni per chi si approfitta delle loro situazioni di debolezza. E Gesù, nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo, si identifica con l’affamato, l’assetato, il forestiero, il carcerato, l’ammalato, quelli che i giusti avranno aiutato e gli ingiusti lasciati al loro destino. Sì, ancora una volta Gesù ribadisce che non vuole discorsi ma fatti concreti. D’altra parte, con Gesù, il credente non è più diviso tra i doveri verso Dio, cioè il culto, l’osservanza del sabato, la preghiera, ecc. e il suo comportamento nella vita sociale e familiare. Anzi, il prossimo (il coniuge, i figli, la famiglia, i vicini, il collega, il cliente, l’impiegato dello sportello, l’immigrato, ecc.), specie se debole e bisognoso di noi, non è mai un ostacolo per avvicinarsi a Dio; semmai è la porta per arrivare più direttamente a Lui!

E qui viene forse il passaggio più difficile della salita. Sì, perché Gesù ci chiede di amare Dio “con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”, e il prossimo come noi stessi. Quello che chiede Gesù è un amore sincero che coinvolga tutta la persona, cuore, anima e mente. Non si contenta di “opere di carità” fatte per motivi diversi dall’amore, come il cercare di farsi belli, o di guadagnare dei meriti per il paradiso, o per un rimorso di coscienza nei confronti dei più bisognosi. L’amore deve essere vero! Anche San Paolo lo ribadisce: “E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.” (1Cor 13,3). Ma come si fa a comandare l’amore??? L’amore non si può comandare, non si può pretendere! L’amore vive di libertà!

È il passaggio più difficile, ma il Signore non ci indica solo dove salire; ci offre anche l’appiglio, la corda a cui aggrapparsi per tirarsi su. E ci fa intravedere panorami larghi, belli, luminosi, aria leggera e pulita. L’amore dilata il cuore e lo fa respirare leggero, lo fa battere allegro. Quando amo non sono triste, preoccupato, arrabbiato. Quando amo sento la gioia dentro di me. E la corda è questa: Dio ci ha amati per primo, Dio ci ama. In un commento, don Paolo Curtaz suggerisce l’esistenza di un comandamento prima del primo, un comandamento “zero” che Gesù non proclama, ma che è implicito: “lasciati amare da Dio”. Ciò che Gesù chiede è di credere all’amore di Dio, di scoprirlo in noi e di arrenderci ad esso. La vita è ricerca di questo amore che, una volta scoperto, diventa sorgente per amare i fratelli. Orientare la nostra vita verso l’amore è l’unica cosa che ci può dare felicità. Dio quindi mi “ordina” di fare esattamente ciò che desidero maggiormente: lasciarmi amare ed amare. L’amore che Cristo chiede per i fratelli non è uno sforzo di volontà che devo attuare a malincuore, ma il desiderio di comunicare l’amore che io per primo ho ricevuto e che posso dare al fratello nel quale riconosco l’impronta di Dio.
Una considerazione generale da fare è che posso accogliere solo se mi accetto e mi sento accettato, posso amare se mi sento amato. E se io posso anche considerarmi non amabile, Cristo mi dice che Dio ama me, con le mie fatiche, i miei limiti, le mie storie, le mie oscurità, e quindi mi ama e mi accoglie anche se il mio amore per gli altri è limitato. Non mi ama perché sono amabile, non mi ama perché me lo merito ma, semmai, amandomi, mi rende amabile.

Noi, credenti in Cristo, sappiamo, con la mente, che Dio ci ama, ma possiamo anche percepirlo in modo più profondo. Dedichiamo ogni tanto qualche minuto a far tacere la mente ragionante e sentire la Vita dentro il nostro corpo, nelle mani, nel respiro, nella schiena, nel viso... Dio è lì, è la Vita che fa funzionare il mio corpo, che fa battere il cuore, mi fa respirare, mi fa digerire, anche quando sono addormentato. Come dice Tony de Mello nell’esercizio “Il tocco di Dio”, sentire il proprio corpo è l’esperienza più elementare di Dio che possiamo fare: Emmanuel, il Dio-con-noi.
Possiamo così pian piano percepire che noi siamo parte della Vita dell’universo, come un’onda di superficie che è parte dell’oceano, e che attraverso le profondità del mare siamo uniti a tutte le altre onde di superficie.
È difficile questo, perché siamo inconsapevolmente intrappolati dal nostro ego, il castello di idee ed emozioni che ci vuole diversi, separati e spesso in conflitto con gli altri, e che si regge sull’identificazione con le mie cose, le mie idee, il mio prestigio, il mio onore, le mie capacità... o il mio essere sfortunato, il mio essere incapace, il mio essere vittima, i torti subiti e così via. Se pian piano cominciamo a renderci conto che le nostre azioni o reazioni sono dettate dal nostro ego, e che la stessa cosa avviene nei fratelli, sarà più facile sorridere alla vita, e l’amore sarà una risposta sempre più spontanea.

Concludo con alcune parole prese da un’omelia di don Marco Pedron dal titolo “Ali ferite? Curale e prendi il volo”:

L’amore vive già dentro di noi. Si tratta solo di liberarlo dalle prigioni in cui l’abbiamo dovuto rinchiudere.
L’amore scorre già dentro di noi: è che le dighe della vita lo arginano.
L’amore ci abita già: è che ce ne difendiamo per non soffrire.
Le ali le abbiamo: curiamole (se c’interessa!) e prendiamo il volo.

Buona salita a tutti verso le vette dell’Amore!