11 gennaio 2020
Con Marco alla scoperta di Gesù
Diciassettesima tappa: Cap. 14, 17-31

L'ultima cena di Gesù con i suoi

Il cammino che stiamo facendo alla scoperta, alla conoscenza di Gesù, con il vangelo di Marco è molto importante, in particolare in questo ultimo anno; affrontiamo infatti il grande racconto della passione, mai veramente analizzato dall’omelia dei sacerdoti nella domenica delle Palme (quella di Marco si legge nell’anno B). Il brano di stasera viene proposto dalla liturgia anche in occasione della festa del Corpus Domini dell’anno liturgico B, operando dei tagli, fatto questo che non consente di inserire correttamente il brano nel suo contesto perché Marco incornicia il racconto dell’ultima cena tra l’annuncio del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro, che costituiscono aspetti fondamentali per coglierne il senso profondo. Pertanto diventa ancor più doveroso soffermarci stasera ad ascoltare e vivere questo momento della vita di Gesù.

Secondo la tradizione l’ultima cena fu un "seder", momento di inizio della grande festa settimanale di Pesah (la Pasqua)[1]; questa cena rituale, Zikkaron (memoriale), ricordava la liberazione del popolo dalla schiavitù in Egitto. Ancora oggi ogni volta che il pio israelita fa memoria di quell’evento non ricorda solo Mosé, ma partecipa di quell’esperienza, chiedendosi da quale Egitto deve liberarsi, quale faraone opprime ancora oggi la sua vita, rivivendo ed attualizzando l’esodo.
È questo il contesto nel quale Gesù al termine di quella cena invita i suoi discepoli: “Fate questo in memoria di me!”, garantendo la sua presenza in questo nuovo ed eterno memoriale e chiedendo a noi non di ricordare, ma di rivivere ed attualizzare quel momento.
Vorrei leggere quindi il brano di stasera partendo dalle cornici per concludere andando al cuore:

Sono forse io?

Mc 14,17-21:   
[17]Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. [18]Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». [19]Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l'altro: «Sono forse io?». [20]Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. [21]Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».

È notte! Così inizia l’ultimo, il sesto giorno al termine del quale si compirà la creazione dell’uomo nuovo, capace di dire il suo sì alla proposta d’amore di Dio. In quella notte illuminata dal dono di Gesù del suo corpo, si svela l’oscurità di chi non crede e lo tradisce. Gesù è insieme a tutti i suoi discepoli, è un momento conviviale, una cena, che solo lo stesso Gesù sapeva essere l’ultima, mentre i discepoli, che non avevano ancora capito nulla, non lo sapevano. È una festa vissuta però con un cuore immerso nel dolore, eppure aperto, spalancato al dono supremo di sé, che Gesù stava per vivere. Gesù sa che non vi è altro modo che donare tutto sé stesso, sa che è l’ultima occasione per parlare con i suoi; possiamo solo immaginare quanta intensità di sentimenti, quanta profondità nelle parole sapendo che è l’ultima volta.

Gesù siede al centro della tavola e forma quel cerchio che è il regno dei Cieli, dove si spezza insieme il pane, dove non domina più l’economia del vendere/acquistare, ma dell’essere/donare. Non più la logica del possesso e dell’egoismo, ma del dono e dell’amore. Gesù spezza il pane nel gesto della condivisione, ma non tutti i suoi discepoli riescono a credere al Cristo povero che si dona: proprio chi siede a mensa con lui, nel gesto più familiare, non gli crede, perciò lo “vende” lo tradisce. Per accettare Dio, che si dona a noi, dobbiamo abbandonare la logica mercantile ed utilitaristica in cui è immerso l’uomo: occorre convertirsi dal possesso al dono, dall’egoismo all’amore; chi non compie tale passaggio resta nella morte. Giuda è nella morte perché continua a restare nei suoi criteri umani: non capisce la nuova economia del regno, quella dell’essere/donare, rimanendo chiuso in quella del vendere/comprare.

Nel tradimento di Giuda si riassume il mistero della cecità del cristiano di fronte a Gesù; è un peccato senza via d’uscita: è la stessa mancanza di fede. A differenza di Pietro che rappresenta il discepolo infedele, ma credente, Giuda non accetta che il Cristo liberatore sia colui che dona sé stesso. Giuda non si è messo dietro Gesù, preferendo il pensiero dell’uomo al pensiero di Dio. Per questo il tradimento che Giuda compirà non è frutto di cattiveria sovrumana: è ciò che normalmente anche senza accorgersene compie ogni cristiano che non accetta il Cristo nella sua umiltà. Tutti sono con Cristo fino all’ultima cena e siedono alla mensa dove lui spezza il pane, ma pochi lo seguono nel vivere ciò che esso significa. L’uomo non ha difficoltà a stare dalla parte di Dio fino a quando pare che lui stia dalla sua parte, confermando le aspirazioni di gloria e di potenza. Le cose si mettono diversamente quando Dio si mette ad adempiere le proprie promesse. L’uomo è come Adamo, che desidera essere come Dio, ma si sottrae a Dio quando questi volendo farlo simile a sé, gli indica la vera via.

Gesù si dona, Giuda lo vende; ecco il tradimento: donare e vendere si contrappongono tra di loro come la via concreta all’umiltà e alla povertà con la via alla superbia e alla potenza del possesso. I traditori della fede non sono i cristiani incoerenti, deboli e peccatori, poiché costoro, pur nella loro infedeltà restano aperti alla fedeltà di Cristo; i traditori della fede sono coloro che si sottraggono al dono della grazia, non accettano la via della croce e si sentono traditi, delusi da Cristo nelle loro speranze ed aspirazioni, sono immersi nella logica economica del mondo, quella dello scambio che pesa, calcola e consegna: in questo modo si chiudono al dono e svendono colui che si dona.

Con l’affermazione “uno di voi mi tradirà”, Gesù intende svelare il peccato che è dentro la comunità, riconoscendolo nella sua misericordia e nel suo perdono definitivo; infatti, senza riconoscimento del peccato, non c’è perdono.
Marco non rivela il nome del traditore e con questo artificio letterario tutti dobbiamo sentirci messi in discussione e coinvolti: Marco lascia appositamente la situazione in sospeso perché ognuno si interroghi. L’importante non è scoprire il traditore su cui scaricare il peso del tradimento, quanto sapere che ognuno è capace di essere il traditore. Parafrasando Kennedy “siamo tutti Giuda!” quando, non accettando Cristo, non vogliamo riconoscere il nostro peccato e rifiutiamo il suo perdono; Giuda è nostro fratello
[2], perché lui è come noi, abbiamo lo stesso sangue e la stessa carne. Ma essere fratelli implica non solo il fatto di agire come lui, ma anche la possibilità di agire diversamente. Ci sono due vie che entrano in gioco nel racconto della passione e nelle nostre vite: da una parte la fedeltà a Dio e all’uomo, che si manifesta nell’amore come dono di sé e dall’altra l’attaccamento a sé e alle cose. Domandiamoci allora “Sono forse io?” perché questa è la domanda che ogni discepolo deve farsi se non vuole tradire. La risposta è elementare: sono nell’economia del dono o in quella del vendere? Chi non segue Gesù che si dona, inevitabilmente lo svende e dunque “Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!”, perché ha perso il dono della vita.

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Io no!

Mc 14,26-31:  

[26]Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. [27]Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”. [28]Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». [29]Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». [30]Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». [31]Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.

Gesù resta solo nel suo cammino: chi non fa come Lui ha fatto, partecipando al dono della propria vita, chi non beve realmente il suo stesso calice e non riceve il suo stesso battesimo (Mc 10,38), si scandalizzerà del Cristo e fuggirà via da lui. Se i discepoli di Cristo faranno affidamento sulla “loro” fedeltà a Cristo, andranno incontro al fallimento inevitabile di questa falsa sicurezza. Anche Pietro lo potrà rinnegare, ma continuerà ad aver fede e questa fragilità va superata nella preghiera. Quando uno lo scopre, e si sente perduto, può sempre piangere come Pietro (Mc 14,72) e così incontrare con gli occhi purificati lo sguardo del maestro che riaccende in essi la luce; infatti una volta che avranno assaporato il dolore amaro della caduta potranno vedere con gli occhi ripuliti dalle lacrime ed accogliere la fedeltà del Signore, che mentre predice la defezione e la fuga, promette di precederli lungo le vie di questo mondo per essere sempre con loro. Che bello! Voi scapperete, ma io sarò davanti a voi!

Si apre di fronte a noi quella tragica distanza che esiste tra i cristiani e il Cristo e di fronte alla prova i discepoli cadranno per debolezza e fragilità; quando appare più chiaro il disegno d’amore di Dio, rimaniamo tutti scandalizzati. Di fronte alla totale sconfitta di Gesù si spegne nei discepoli la fede in Lui e in loro trova spazio la delusione (“noi speravamo che fosse lui a liberare Israele” Lc 24,21), per cui fuggono in Galilea, cioè ritornano alla loro esistenza precedente, ma qui, sorpresa, siamo preceduti da Gesù solo dopo la resurrezione. Occorre vivere l’esperienza della resurrezione perché diventi possibile recuperare, reinterpretare gli avvenimenti precedenti, rompere i limiti storici di una vicenda non dissimile da altre per darle un significato di salvezza. Scrive san Paolo: “se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede” (1Cor 15,17). Coscienti della nostra debolezza e insufficienza, possiamo solo confidare nella fedeltà di Cristo; non è la nostra fedeltà che ci salva, ma la fedeltà eterna di Dio che in Gesù ci viene incontro proprio nelle nostre infedeltà e debolezze.

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“Fate questo in memoria di me!”
Ciascuno esamini sé stesso e poi mangi del pane e beva dal calice[3]

Mc 14,22-25:  

[22]E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». [23]Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. [24]E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. [25]In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

Siamo di fronte a uno dei testi più antichi dei vangeli, probabilmente formatosi nelle celebrazioni eucaristiche delle prime comunità: risultano evidenti l’origine palestinese e la natura liturgica del racconto appena ne osserviamo il contenuto e lo stile. Dal confronto dei versetti 18 e 22 si capisce che questo brano faceva parte di un altro contesto e fu poi inserito qui per il suo valore. L'intento di Marco non è quello di descrivere un momento dell'ultima cena, ma quello di testimoniare la fede dei primi credenti nel Cristo morto e risorto, che diventa fonte di nuova vita sotto i segni sacramentali del pane e del vino. La struttura di Mc 14 e 1Cor 11 è molto simile, poiché riflettono un uso liturgicamente affermato. Ad ognuno dei due gesti compiuti da Gesù prima sul pane e poi sul calice, che corrispondono ai tradizionali gesti all'inizio e alla fine del banchetto pasquale ebraico, segue una frase interpretativa pronunciata da Gesù rispettivamente sul pane e sul calice allo scopo di proclamare il significato di quel rito. Mentre in 1Cor si suppone che Gesù abbia distribuito il suo corpo durante il pasto e il calice solo alla fine, in Marco appare che sia il rito del pane sia quello del vino siano stati compiuti dopo il pasto; qui intravediamo la prassi che si instaurò in un secondo tempo con l'eucaristia che veniva celebrata dopo a causa degli abusi. Comunque in ambedue i testi l'eucaristia è presentata strettamente connessa al pasto comune. 

Il brano dell’istituzione dell’eucaristia affonda le sue radici nella storia del popolo ebraico che culmina nella storia di Gesù e nella storia delle comunità cristiane; nella cena del Signore celebriamo con gioia la realizzazione definitiva dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, la prefigurazione dell’unione perfetta tra Dio e gli uomini che avverrà nel compimento pieno del suo regno: è la morte di Gesù che ci ha reso possibile aprirci a questi nuovi orizzonti di vita per il tempo presente e per l’eternità. 

Veniamo al testo e notiamo subito una differenza importante rispetto al "seder pasquale": in quella cena (vedi nota 1) non era presente l’agnello perché è Gesù il vero agnello pasquale, la cui carne servirà per affrontare l’esodo, la liberazione e il cui sangue libererà dalla morte.
Gesù è cosciente che la sua vita è giunta alla fine e vuole che il mondo nuovo al quale ha dato inizio non finisca con la sua morte. Egli vuole che i suoi discepoli si impegnino a dare continuità all’uomo nuovo che Lui ha introdotto nel mondo, vuole che nasca un mondo di uomini che siano veri, che siano agnelli e non belve e vuole porre un segno davanti ai suoi discepoli che indichi questo progetto, che lui ha realizzato con la sua vita: il pane indica tutto ciò che è necessario per la vita, mentre nel vino viene simboleggiata la gioia necessaria in una vita umana.

Gesù prende un gesto rituale, riproponendo quel memoriale dell’intervento di Dio che liberò il popolo dall’Egitto per modificarlo completamente e farne il segno definitivo ed eterno dell’amore di Dio. Ecco l’eucaristia: Dio non si propone più di governare l'uomo attraverso un codice di leggi esterne, ma di trasformarlo immettendogli la sua stessa vita; la novità di un Dio che non spezza nessuno, spezza sé stesso; non chiede sacrifici, sacrifica sé stesso; non versa la sua ira, ma versa "sui molti" il proprio sangue, datore di nuova vita. Spesso trasformiamo l'ultima Cena in un'anticipazione triste della passione che incombe, mentre Gesù fa esattamente il contrario: trasforma la cronaca di una morte annunciata in una festa, una celebrazione della vita.

Così nella nostra eucaristia, memoriale di quell’ultima cena, noi dobbiamo guardare a quanto accaduto in essa, non perché dobbiamo riprodurre tutto quello che ha fatto Gesù, ma per non tradirne il senso autentico; noi abbiamo trasformato la messa nel più alto momento liturgico nella vita della comunità cristiana ma sarebbe bene ricordare quella cena non si svolse in un tempio, ma in una casa, nella quotidianità della vita. Non ci sono turiboli, genuflessioni, ma è tutto molto normale, semplice, autentico: insomma è la vita di ogni giorno che l’eucaristia celebra e se io non porto all’altare la mia vita non celebro l’eucaristia di Gesù. Oggi abbiamo mercificato l’Eucaristia, quante volte ho sentito mia madre dire “andiamo a prendere messa!”, dimenticando che è il dono che il Signore ci ha fatto.

Allora ascoltiamo cosa successe in quella cena: Gesù prese del pane (sottolineo “del” perché è scorretto dire che prese “il” pane) con un gesto di inaudita semplicità e lo benedisse, tipico verbo del sentimento religioso ebraico, mentre riguardo al calice il verbo cambia e diventa rendere grazie, verbo questo tipico del sentimento religioso pagano. In questa formula l’antico popolo di Dio ed il nuovo popolo di Dio entrano in comunione perfetta: l’eucaristia non divide, ma unisce realtà anche completamente differenti.
Benedice Dio per quel pane, che rappresenta tutti i doni di Dio, lo spezza perché quel pane va condiviso, non rimane intero, ed infine lo dona. Benedire significa riconoscere che tutto ciò che si trova sulla tavola, tutto ciò che alimenta la nostra vita viene dal Signore, è un dono gratuito della sua bontà e questi doni di Dio sono da condividere con chi è nel bisogno. La benedizione riconosce che tutto è dono di Dio, è un inno alla gratuità di Dio ed è una proposta di vita nella gratuità. 

"Questo è il mio corpo" è espressione semitica per dire questo sono io; il corpo per un semita non sono i muscoli, le ossa, ma la persona che si è andata facendo lungo tutta la sua storia di vita. Quando Gesù dice "questo è il mio corpo" presenta in quel segno tutta la sua storia; notiamo che non è il pane che diventa Gesù, ma è Gesù che presenta la sua storia dicendo che lui è pane. Il mistero della transustanziazione ci dice che realmente quel pane e quel vino diventano il corpo ed il sangue di Cristo, ma qui Cristo sembra dire il contrario ovvero che Lui si trasforma nel pane. Quantomeno dobbiamo ammettere che per fredda logica se A è uguale a B allora anche B è uguale ad A.
“Prendete, questo è il mio corpo”: il verbo è preciso e nitido come un ordine “prendete”; prendere è il gesto cosciente di chi accetta la proposta. Il pane non è scagliato addosso, ma proposto con mano tesa perché io, liberamente possa prenderlo. Quando noi prendiamo e mangiamo quel pane compiamo un gesto che significa io voglio assimilare questa tua storia di vita donata: questo è l’unico significato dell’eucaristia, un significato troppe volte offuscato da diverse devozioni. Non si deve poi dimenticare che il pane eucaristico è pane e (scusatemi se pensate che stia uscendo dal seminato) è pane da mangiare, non da guardare e nemmeno da adorare. È giunto il momento di riportare l’eucaristia al suo significato originale e provocatorio; essa è segno autentico di una proposta d’amore: Gesù mi chiede se voglio unire la mia vita alla sua vita donata. Non voglio abolire l’adorazione, ma adorare senza assimilare è bestemmia ancora più grande. Il suo è un invito sponsale, è esattamente ciò che lo sposo chiede alla sposa “vuoi unire la tua vita alla mia?”; adorare senza accogliere la sua proposta d’amore è negare l’opera di salvezza di Gesù. A questo punto è evidente l’importanza della testimonianza poiché chi ci vede dopo l’eucaristia dovrebbe vedere la vita di Cristo donata attraverso la nostra vita perché abbiamo unito la nostra vita alla sua. Con quel gesto, con quelle parole, Gesù afferma che tutta la sua vita è divenuta alimento per la vita dei fratelli, non ha risparmiato nemmeno una briciola della sua vita, prendete ed assimilate la mia storia, la mia vita.

In conclusione "prendete questo corpo", vuol dire: fate vostro questo mio modo di stare nel mondo, il mio modo libero e regale di avere cura e passione per ogni forma di vita. Con il suo corpo Gesù ci consegna la sua storia, con il suo sangue, ci comunica il senso della sua passione, la fedeltà fino all’estremo. Con il nostro sì noi accettiamo che la sua storia diventi la nostra, cioè che anche noi dobbiamo diventare pane, che la nostra vita possa in ogni momento essere cibo per alimentare i nostri fratelli. Lo dice benissimo Leone Magno: partecipare al corpo e al sangue di Cristo non tende ad altro che a trasformarci in quello che riceviamo, che possiamo tutti diventare ciò che riceviamo: anche noi corpo di Cristo. Allora sarebbe riduttivo pensare che Dio sia venuto nel mondo con il semplice obiettivo di perdonare i nostri peccati, di salvarci; il suo progetto è molto più grande: portare Dio nell’uomo, l’infinito amore Dio nella mia piccola vita.
Non basta dare adesione alla figura di Gesù, bisogna accettare anche quello che il calice comporta, cioè la morte; questo è il sangue della mia alleanza; vi è una sostituzione dell’alleanza che non è più basata sull’osservanza della Legge, ma sull’accoglienza del suo amore.
L’annunzio che non berrà più il frutto della vite fino al giorno in cui lo berrà nuovo nel Regno di Dio, è l’annuncio di una nuova qualità d’amore che non è ancora a disposizione dei discepoli perché non hanno ancora compreso quale sarà l’amore che spingerà Gesù a dare la vita.

Visto la grandezza di ciò che celebriamo ci potremo chiedere adesso perché l’eucaristia ogni domenica, ogni giorno? Mi piacerebbe rispondere che vado, si va a messa anzitutto per prendere coscienza che siamo persone amate gratuitamente, per entrare in questa logica dell’amore incondizionato di Dio, sentirsi amati così come siamo fragili e peccatori; possiamo così ringraziare per i doni, di cui siamo stati colmati, doni da condividere gratuitamente e con gioia con tutti gli uomini, nostri fratelli in Cristo. È esperienza mia, ma credo e spero di tutti voi, ma io non smetterei mai di sentirmi dire da mia moglie che mi ama; in secondo luogo celebrare l’eucaristia è fare una cura di bellezza, metterci davanti a Cristo come sole della nostra vita. Metterci davanti alla sua parola e alla sua persona che ha donato la vita, ci confrontiamo con il suo amore!

In conclusione per la condivisione di stasera vi lascio le parole di Paolo ai Corinti: “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga. Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1Cor 11,26-29).



Note
  1. Nel confronto tra i vangeli abbiamo un grosso problema testuale tra ciò che ci dicono i sinottici ovvero che Gesù ha celebrato la Pasqua con i suoi discepoli e quanto ci dice Giovanni, il quale afferma che Gesù morì nel giorno della Parasceve, per i non esperti di greco antico, la vigilia, il giorno della preparazione. Sarebbe capzioso e di poco interesse cercare di capire chi ha ragione, poiché tutta è parola di Dio e tutta deve essere vera; qui si sta parlando non di qualche piccolo o grande miracolo ma del momento fondamentale della stessa vita di Gesù e non ci dovrebbero essere incongruenze. Due possibili soluzioni: Gesù avrebbe anticipato di un giorno il "seder pasquale" previsto per il venerdì, a mio avviso poco probabile, oppure Gesù non avrebbe seguito il calendario liturgico ufficiale del tempio che prevedeva la Pasqua cadere nel plenilunio (14/15 di nisan), quell’anno cadeva di sabato, ma il calendario in uso presso gli Esseni, la comunità sacerdotale di Qumran, che faceva cadere l’inizio della festa con il mercoledì più vicino al plenilunio, quindi in quell’anno il mercoledì precedente. Secondo questa ricostruzione ipotetica Gesù l’ultima cena si sarebbe svolta Martedì 4 aprile e Gesù sarebbe morto Venerdì 7 aprile del 30 d.C.

  2. In appendice qua sotto trovate una famosa predica di Don Primo Mazzolari dal titolo “Nostro fratello Giuda”; è un invito a rifletterci sopra, magari in occasione del prossimo triduo pasquale.

  3. 1Cor 11,28



Appendice

Nostro fratello Giuda

Miei cari fratelli, è proprio una scena d’agonia e di cenacolo. Fuori c’è tanto buio e piove. Nella nostra Chiesa, che è diventata il Cenacolo, non piove, non c’è buio, ma c’è una solitudine di cuori di cui forse il Signore porta il peso. C’è un nome, che torna tanto nella preghiera della Messa che sto celebrando in commemorazione del Cenacolo del Signore, un nome che fa’ spavento, il nome di Giuda, il Traditore. Un gruppo di vostri bambini rappresenta gli Apostoli; sono dodici. Quelli sono tutti innocenti, tutti buoni, non hanno ancora imparato a tradire e Dio voglia che non soltanto loro, ma che tutti i nostri figlioli non imparino a tradire il Signore. Chi tradisce il Signore, tradisce la propria anima, tradisce i fratelli, la propria coscienza, il proprio dovere e diventa un infelice. Io mi dimentico per un momento del Signore o meglio il Signore è presente nel riflesso del dolore di questo tradimento, che deve aver dato al cuore del Signore una sofferenza sconfinata. Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. E’ uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: "Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!" Amico! Questa parola che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro. Vi ho domandato: come mai un apostolo del Signore è finito come traditore? Conoscete voi, o miei cari fratelli, il mistero del male? Sapete dirmi come noi siamo diventati cattivi? Ricordatevi che nessuno di noi in un certo momento non ha scoperto dentro di sé il male. L’abbiamo visto crescere il male, non sappiamo neanche perché ci siamo abbandonati al male, perché siamo diventati dei bestemmiatori, dei negatori. Non sappiamo neanche perché abbiamo voltato le spalle a Cristo e alla Chiesa. Ad un certo momento ecco, è venuto fuori il male, di dove è venuto fuori? Chi ce l’ha insegnato? Chi ci ha corrotto? Chi ci ha tolto l’innocenza? Chi ci ha tolto la fede? Chi ci ha tolto la capacità di credere nel bene, di amare il bene, di accettare il dovere, di affrontare la vita come una missione. Vedete, Giuda, fratello nostro! Fratello in questa comune miseria e in questa sorpresa! Qualcheduno però, deve avere aiutato Giuda a diventare il Traditore. C’è una parola nel Vangelo, che non spiega il mistero del male di Giuda, ma che ce lo mette davanti in un modo impressionante: "Satana lo ha occupato". Ha preso possesso di lui, qualcheduno deve avervelo introdotto. Quanta gente ha il mestiere di Satana: distruggere l’opera di Dio, desolare le coscienze, spargere il dubbio, insinuare l’incredulità, togliere la fiducia in Dio, cancellare il Dio dai cuori di tante creature. Questa è l’opera del male, è l’opera di Satana. Ha agito in Giuda e può agire anche dentro di noi se non stiamo attenti. Per questo il Signore aveva detto ai suoi Apostoli là nell’ orto degli ulivi, quando se li era chiamati vicini: "State svegli e pregate per non entrare in tentazione". E la tentazione è incominciata col denaro. Le mani che contano il denaro. Che cosa mi date? Che io ve lo metto nelle mani? E gli contarono trenta denari. Ma glieli hanno contati dopo che il Cristo era già stato arrestato e portato davanti al tribunale. Vedete il baratto! L’amico, il maestro, colui che l’aveva scelto, che ne aveva fatto un Apostolo, colui che ci ha fatto un figliolo di Dio; che ci ha dato la dignità, la libertà, la grandezza dei figli di Dio. Ecco! Baratto! Trenta denari! Il piccolo guadagno. Vale poco una coscienza, o miei cari fratelli, trenta denari. E qualche volta anche ci vendiamo per meno di trenta denari. Ecco i nostri guadagni, per cui voi sentite catalogare Giuda come un pessimo affarista. C’è qualcheduno che crede di aver fatto un affare vendendo Cristo, rinnegando Cristo, mettendosi dalla parte dei nemici. Crede di aver guadagnato il posto, un po’ di lavoro, una certa stima, una certa considerazione, tra certi amici i quali godono di poter portare via il meglio che c’è nell’anima e nella coscienza di qualche loro compagno. Ecco vedete il guadagno? Trenta denari! Che cosa diventano questi trenta denari? Ad un certo momento voi vedete un uomo, Giuda, siamo nella giornata di domani, quando il Cristo sta per essere condannato a morte. Forse Lui non aveva immaginato che il suo tradimento arrivasse tanto lontano. Quando ha sentito il crucifigge, quando l’ha visto percosso a morte nell’atrio di Pilato, il traditore trova un gesto, un grande gesto. Va’ dov’erano ancora radunati i capi del popolo, quelli che l’avevano comperato, quella da cui si era lasciato comperare. Ha in mano la borsa, prende i trenta denari, glieli butta, prendete, è il prezzo del sangue del Giusto. Una rivelazione di fede, aveva misurato la gravità del suo misfatto. Non contavano più questi denari. Aveva fatto tanti calcoli, su questi denari. Il denaro. Trenta denari. Che cosa importa della coscienza, che cosa importa essere cristiani? Che cosa ci importa di Dio? Dio non lo si vede, Dio non ci da’ da mangiare, Dio non ci fa’ divertire, Dio non da’ la ragione della nostra vita. I trenta denari. E non abbiamo la forza di tenerli nelle mani. E se ne vanno. Perché dove la coscienza non è tranquilla anche il denaro diventa un tormento. C’è un gesto, un gesto che denota una grandezza umana. Glieli butta là. Credete voi che quella gente capisca qualche cosa? Li raccoglie e dice: "Poiché hanno del sangue, li mettiamo in disparte. Compereremo un po’ di terra e ne faremo un cimitero per i forestieri che muoiono durante la Pasqua e le altre feste grandi del nostro popolo". Così la scena si cambia, domani sera qui, quando si scoprirà la croce, voi vedrete che ci sono due patiboli, c’è la croce di cristo; c’è un albero, dove il traditore si è impiccato. Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda. Provate a confrontare queste due fini. Voi mi direte: "Muore l’uno e muore l’altro". Io però vorrei domandarvi qual è la morte che voi eleggete, sulla croce come il Cristo, nella speranza del Cristo, o impiccati, disperati, senza niente davanti. Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia. E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro. E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi amico. La Pasqua è questa parola detta ad un povero Giuda come me, detta a dei poveri Giuda come voi. Questa è la gioia: che Cristo ci ama, che Cristo ci perdona, che Cristo non vuole che noi ci disperiamo. Anche quando noi ci rivolteremo tutti i momenti contro di Lui, anche quando lo bestemmieremo, anche quando rifiuteremo il Sacerdote all’ ultimo momento della nostra vita, ricordatevi che per Lui noi saremo sempre gli amici.

(don Primo Mazzolari)