12 maggio 2018
Con Marco alla scoperta di Gesù
Nona tappa: Cap. 8 completo e 9,1

Proseguiamo il nostro cammino “con Marco alla scoperta di Gesù” e compiamo il nostro personale e comunitario giro di boa, infatti con la lettura di questa sera concludiamo la prima parte del vangelo di Marco ed iniziamo con un breve brano la seconda. È lo stesso Marco che ci suggerisce questa suddivisione: 1) Mc 1,1: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”; 2) Mc 8, 29b: “Pietro gli rispose: Tu sei il Cristo”; 3) Mc 15,38: “Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!”

Oggi non siamo soltanto al cuore del vangelo, ma anche del nostro personale itinerario di fede. Alcune domande ci rivolgerà il Signore: “Non capite ancora?”, “Vedi qualcosa?” e soprattutto la domanda fondamentale di tutta la nostra vita “Ma voi, chi dite che io sia?”.

Stasera queste stesse domande vogliamo sentirle risuonare nel cuore delle sorelle e dei fratelli che condividono con noi questo pellegrinaggio spirituale come popolo/comunità.

Mc 8,1-10:   (Seconda moltiplicazione dei pani)
In quei giorni, poiché vi era di nuovo molta folla e non avevano da mangiare, chiamò a sé i discepoli e disse loro: “Sento compassione per la folla; ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle loro case, verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da lontano”. Gli risposero i suoi discepoli: “Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?”. Domandò loro: “Quanti pani avete?”. Dissero: “Sette”. Ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani, rese grazie, li spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; recitò la benedizione su di essi e fece distribuire anche quelli. Mangiarono a sazietà e portarono via i pezzi avanzati: sette sporte. Erano circa quattromila. E li congedò. Poi salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà.

Confrontando questo secondo racconto della moltiplicazione dei pani con il primo (Mc 6,35-44) si può notare l’andamento del tutto parallelo dei due brani: la compassione di Gesù per la folla, il dialogo con i discepoli, la domanda di Gesù sul numero dei pani, la distribuzione dei pani ad opera dei discepoli dopo la benedizione e la frazione del pane, la distribuzione dei pesci, la raccolta degli avanzi, il congedo della folla e la traversata sul lago. Queste somiglianze ci fanno sospettare che l’episodio in questione potesse essere soltanto uno riletto in due modi diversi dall’evangelista. Oltre le similitudini è facile scorgere alcune differenze: i pani sono sette e non cinque, si parla di alcuni pesci e non di due, gli avanzi vengono raccolti in sette sporte e non in dodici ceste, le persone sfamate furono circa quattromila e non cinquemila.

Per le caratteristiche soprattutto dei numeri gli esegeti sono concordi nel vedere in questo secondo racconto una versione più elaborata e recente sorta in ambito pagano rispetto alla prima chiaramente di origine giudeo-cristiana. Ma piuttosto che discutere se le due versioni si riferiscono ad un solo episodio, mi pare importante cercare di capire perché Marco ha voluto scrivere questo secondo racconto. Certamente i due racconti segnano l’inizio di due successivi momenti di riflessione della comunità sulla propria esperienza nel capire chi è Gesù ed il secondo momento appare come un approfondimento del primo.

Marco invita la sua comunità a riflettere più a fondo sul significato centrale dell’eucaristia; in essa noi celebriamo come memoriale la storia della salvezza non solo del popolo di Dio, ma anche della nostra stessa personale storia di salvezza. Nell’eucaristia celebriamo il memoriale della passione e morte di Gesù, che continuamente si ripete; essa diventa per noi memoria scomoda e sovversiva, che ci impedisce di adeguarci alla situazione presente, anzi ci stimola a trasformare noi stessi e tutta la realtà che ci circonda in un cammino di liberazione e di vita nuova verso un mondo pieno di giustizia, di pace e di amore; allora ciò, di cui il nostro spezzare il pane è un timido segno, sarà la grande realtà che abbraccerà tutta la terra.

È proprio nella frazione e nella distribuzione del pane che la comunità professa, non a parole ma coi fatti, la presenza viva di Gesù come Messia. È unico il pane, perciò bisogna che sia spezzato (condiviso) perché tutti ne possiamo vivere: nella celebrazione perché sia reso possibile nella vita e nella vita perché abbia un senso nella celebrazione.

Gesù prende l’iniziativa, invitando indirettamente i discepoli a sfamare la folla. Questa compassione, che si manifesta nel dono del pane, è posta in stretta connessione con l’ultima cena, segno del dono che Gesù farà di sé al mondo sulla croce, dove egli diventerà pane spezzato per la vita di tutti. Allora il significato profondo dell’eucaristia lo si ritrova nella celebrazione della storia di salvezza e nella condivisione del pane per tutti. Di fronte all’incomprensione dei discepoli, Gesù risponde richiamandoli ancora una volta non a ciò che possono comprare, ma a ciò che già hanno e possono dividere e dare. Al non capire dei discepoli e dei cristiani, Gesù contrappone la sua compassione che si fa incontro all’uomo.


Mc 8,11-21:   (I farisei e il loro lievito)

Vennero i farisei e si misero a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla prova. Ma egli sospirò profondamente e disse: “Perché questa generazione chiede un segno? In verità io vi dico: a questa generazione non sarà dato alcun segno”. Li lasciò, risalì sulla barca e partì per l'altra riva.

Avevano dimenticato di prendere dei pani e non avevano con sé sulla barca che un solo pane. Allora egli li ammoniva dicendo: “Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode!”. Ma quelli discutevano fra loro perché non avevano pane. Si accorse di questo e disse loro: “Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite? E non vi ricordate, quando ho spezzato i cinque pani per i cinquemila, quante ceste colme di pezzi avete portato via?”. Gli dissero: “Dodici”. “E quando ho spezzato i sette pani per i quattromila, quante sporte piene di pezzi avete portato via?”. Gli dissero: “Sette”. E disse loro: “Non comprendete ancora?”.

La presenza dei farisei serve per mostrare il motivo profondo per cui i discepoli non capiscono il significato dei pani. Tale incomprensione dipende da un intimo atteggiamento farisaico, che è come un lievito di corruzione; tale lievito consiste nel desiderio innato nell’uomo di chiedere, di avere un segno. Il segno è un rimando a qualcos’altro e cessa la sua funzione quando è giunta la realtà di cui è segno; così Dio è ormai realmente presente in mezzo a noi nel dono che Gesù ha fatto di sé sulla croce. Noi, spezzando lo stesso pane siamo in comunione con il corpo di Cristo morente e abbiamo accesso totale al Padre che è amore; bevendo lo stesso calice, riceviamo il suo medesimo Spirito di vita, che ci fa amare tutti come fratelli, figli dell’unico Dio. Chiedere un segno vuol dire non aver colto la realtà del Dio vivo presente nell’amore tra gli uomini; invece di chiedere segni, bisogna vivere sul serio questa realtà. Cercare un Dio dagli effetti speciali ci impedisce di accogliere il vangelo, gioioso annuncio che Dio è qui, uno di noi, nell’uomo Gesù. I farisei, con la loro idea umana di Dio, sono affamati di prodigi e cose grandi ed attendono la bontà di Dio come soluzione miracolosa per tutti i problemi. Fu la corrente apologetica della fine del II secolo d.C. ad utilizzare i segni, i miracoli per dimostrare la divinità di Gesù e l’intervento nella storia di Dio contro chi negava tutto questo; ancora oggi noi subiamo l’influsso negativo di tutto ciò. È bene ricordare come Gesù rifiuti di dare tale fondamento alla nostra fede, poiché questo tipo di religiosità è un comodo mezzo di evasione dalla nostra realtà quotidiana (oppio dei popoli). Il vangelo ci propone una religione incarnata in cui Dio stesso si è come annientato, si è fatto uomo, uno di noi. Gesù è l’antisegno, scandalo per i religiosi e follia per i benpensanti (cfr. 1Cor 1,23): la fede in Lui si fonda nel riconoscere nella sua debole umanità crocifissa il mistero dell’amore di Dio che ci è venuto incontro in Gesù, pane per tutti. Ai “segni celesti” il messaggio di Gesù contrappone le “realtà terrestri”.

Nella seconda parte del brano, la cecità dei discepoli di fronte al pane, nel quale Gesù si rivela raggiunge il vertice: per ben 5 volte si nomina il pane e per ben 7 volte, in altrettante domande di Gesù è sottolineata la loro incomprensione, poiché le domande rimangono senza risposta. Si noti che nella barca, simbolo della Chiesa i discepoli hanno portato un pane solo, che è Cristo in mezzo a loro nell’amore fraterno. Eppure i discepoli proclamano di non avere pane. Questo pane, Gesù, per esprimere la sua forza deve essere liberato dalla corruzione ideologica della legge e dalla corruzione economico-politica del potere. Abbiamo già parlato del lievito dei farisei ovvero di quel sentimento religioso che si radica nella legge, ponendo Dio fuori dall’uomo; a ciò si aggiunge il lievito di Erode, cioè il dominio di un uomo su un altro uomo. Mentre la legge, impersonata dai farisei, è un’opposizione ideologica al vangelo, il potere incarnato da Erode è un’opposizione pratica ad esso. La comunità deve pertanto vivere di quell’unico pane che è lo Spirito di Gesù Cristo, cioè l’amore di Dio che si esprime nell’amore concreto verso il prossimo. C’è quindi una legge ben precisa anche per noi, la sola che abbia valore assoluto: la persona stessa di Gesù, che si è donato per amore. Ecco il senso del comandamento nuovo, la cui novità non sta nel comando dell’amore, ma nella misura che ci è stata data per verificare questo nostro amore.

Gesù chiede ai suoi discepoli di ricordare il fatto dei pani: nella bibbia il ricordo dei prodigi di Dio è il veicolo della rivelazione della sua fedeltà; dal ricordo scaturisce il riconoscimento di Dio, la lode per le sue opere e la speranza per il futuro.

Gesù conclude le sue sette domande dicendo “Non capite ancora?” Questo mostra come sia impossibile all’uomo penetrare nel mistero del pane di vita: esso ci resta sette volte, cioè totalmente, incomprensibile, senza un intervento di Cristo che faccia cadere dai nostri occhi le scaglie della legge e del potere. Sarà questo il senso del brano successivo.


Mc 8,22-26:   (Guarigione di un cieco a Betsaida)

Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: “Vedi qualcosa?”. Quello, alzando gli occhi, diceva: “Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano”. Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: “Non entrare nemmeno nel villaggio”.

Se la cecità dei discepoli ha raggiunto il suo culmine il miracolo del cieco di Betsaida, indica la conversione che Gesù va operando nei suoi discepoli perché lo riconoscano come Messia, l’inviato di Dio, in cui si adempie la speranza della promessa. Tale conversione è frutto di un ripetuto intervento di Gesù: in un  primo tempo il cieco intravede solo qualcosa di impreciso; Gesù domanda “Vedi qualcosa?” e la risposta del cieco mostra quanto ancora si sia lontani da una vera conversione. Dobbiamo riconoscere col cieco che spesso non vediamo proprio nulla, oppure la nostra fede è ancora tanto confusa da scambiare gli uomini per alberi, ovvero non vediamo gli uomini nella loro dignità di figli di Dio, ma come delle cose, strumentalizzandoli per i nostri scopi. Così li manipoliamo, li dominiamo e siamo incapaci di amarli, di considerarli come fratelli e di spezzare con loro il pane dei figli che Dio ci ha dato. Allora è necessario un intervento successivo: il vangelo ci vuole portare proprio a questo, a vedere cioè più chiaramente in Gesù, che si dona come pane di vita, la liberazione definitiva che Dio aveva promesso e che noi dobbiamo vivere.

Mc 8,27-30:   (Professione di fede di Pietro)

Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gente, chi dice che io sia?”. Ed essi gli risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti”. Ed egli domandava loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro gli rispose: “Tu sei il Cristo”. E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.

Siamo così giunti al centro non solo di questo nostro incontro, ma di tutto il vangelo di Marco perché siamo posti davanti alla domanda fondamentale della nostra vita. Analizzerei quindi ogni singolo versetto di questo brano:

“verso i villaggi intorno a Cesarea e per la strada...”: questa precisazione indicazione di luogo in Marco, che solitamente ne è così scarso, assume un particolare valore. Questa località si trova al confine tra il territorio giudaico e il mondo pagano. Se da un lato indica che Gesù dopo tanto girovagare comincia il suo viaggio verso Gerusalemme, dall’altro il luogo è anche simbolo di un atteggiamento spirituale; anche la nostra identità come comunità si fonda sul sentirsi alle porte della Chiesa con lo sguardo sempre pronto ad aprirsi verso orizzonti nuovi.

“Interrogava i suoi discepoli”: Fino a questo punto della narrazione, erano sempre stati i discepoli e la folla a chiedersi chi era Gesù; ora invece, è Gesù stesso per la prima volta a chiedere loro chi è lui. Qui avviene il capovolgimento al quale Marco ci vuole portare, capovolgimento che avviene in ogni cristiano, quando comincia a tacere la sua domanda su Gesù e si lascia interpellare dall’incontro con la persona di Gesù. La domanda che Gesù fa è duplice, perché duplice è la risposta. C’è la risposta degli uomini che scambiano Gesù per una figura del passato, è la “risposta della carne”, che non riesce a cogliere il mistero di Cristo, ed è la stessa risposta sbagliata, nella quale rischiava di cadere la comunità di Marco che non sapeva riconoscere il Cristo presente nel “fatto dei pani”. Questa conoscenza di Cristo secondo la carne identifica colui che è il vivente con ciò che è morto. È la risposta dell’ovvietà religiosa, che tende a porre lontano, e rende meno scomodo, Colui che è vicino, vivo e presente. In questo modo il Cristo viene neutralizzato, viene liquidato elegantemente, ornandone il sepolcro con titoli onorifici.

La seconda domanda si contrappone alla prima “Ma voi, chi dite che io sia?” e richiede una risposta che è un “ma” rispetto alla risposta secondo la carne; un “ma” che si contrappone a tutti i criteri del mondo, religioso o no; un “ma” che proviene dalla vita vissuta di un “voi” ecclesiale, comunitario, popolare di coloro che sono guariti dalla cecità, dalla sordità e ora possono annunciare Cristo.

Si tratta della provocazione essenziale del vangelo, che continuamente ci mette in discussione e ci chiama a uscire da noi stessi e dai nostri criteri mondani di valutazione e azione; è la provocazione permanente che Cristo fa alla sua Chiesa, alla sua comunità, al suo popolo perché sappia liberarsi dal lievito della legge e del potere per restare aperta alla novità del dono. Dobbiamo saper rinunciare a tutte le nostre categorie e sovrastrutture religiose e morali (Cfr. Fil 3,4-11)[1]. Si tratta della conversione più radicale che ci porta a scoprire Dio non come lo intendiamo noi, ma come si è rivelato in Gesù, attraverso la sua parola eterna, piena e definitiva, manifestata agli uomini. Pertanto questa seconda risposta deve sempre costituire un “ma” rispetto a quanto si riteneva acquisito per giungere alla rivelazione in noi della persona di Cristo, come dice Paolo: “non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) ed ancora “per me vivere è Cristo” (Fil 2,21). Infine questa risposta non è astratta, ma incarnata da un “voi” che comprende tutto il popolo di Dio che vuole seguire Cristo.

Questa seconda risposta “tu sei il Cristo!” è giusta, ma solo parzialmente, perché non vi è contenuta l’accettazione del Cristo così come è, infatti Pietro cerca ancora di impossessarsene e manipolarlo, facendone un Cristo secondo la carne, a nostra misura. Non è ancora giunto il momento di annunciare Cristo, è meglio stare zitti; infatti bisogna saper ascoltare e accettare il mistero di Gesù che si rivelerà come figlio di Dio soltanto sulla croce, facendoci dono della vita di Dio.

Mc 8,31-38 e 9,1:   (Primo annunzio della passione e condizioni per seguire Gesù)

E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: “Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”.

Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà. Infatti quale vantaggio c'è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita? Che cosa potrebbe dare un uomo in cambio della propria vita? Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi”. Diceva loro: “In verità io vi dico: vi sono alcuni, qui presenti, che non morranno prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza”. 

Inizia così la seconda parte del vangelo di Marco, quella in cui comincia la manifestazione aperta del mistero dell’amore infinito di Dio; Gesù annuncia che cosa significhi per lui essere il Messia e per quale via si sarebbe realizzata la sua missione e Pietro non capisce: quanto siamo meschini quando tentiamo di insegnare a Dio a fare il dio!

Per tre volte da questo momento nel vangelo di Marco Gesù annuncerà la sua passione sempre seguendo lo stesso schema: un’esperienza esaltante; l’annuncio; una prima reazione negativa degli apostoli; una serie di istruzioni agli apostoli per orientarli alle nuove prospettive evangeliche.

Gesù spiega come la salvezza vada vissuta attraverso il dono pieno e totale della propria vita; se è vero che Gesù è il Cristo, speranza dell’umanità, tale speranza passa attraverso la croce, poiché il Cristo è il Crocifisso. A volte cerchiamo di costruirci il nostro Cristo e la nostra salvezza su misura, ma Dio ci smentisce. Il dono che ci è fatto in Gesù supera ogni attesa umana nel modo e nel contenuto. Questa distanza tra il pensiero di Dio e il pensiero dell’uomo costituisce il cuore del vangelo: non è possibile per l’uomo pensare che Dio ci ami così tanto, ci “ami da morire”. Questa parola di salvezza, che è Gesù, nella fedeltà a Dio e all’uomo, non può che entrare in contrasto con il potere economico, politico e religioso, fino a subire la condanna ad una morte violenta. Accogliere il vangelo esige così una conversione radicale, in cui l’uomo possa uscire da sé stesso e dai propri criteri per accettare e vivere secondo la logica di Dio. Pensare secondo gli uomini e non secondo Dio è la tentazione tipica dell’uomo, è il satana (ostacolo) che ci tiene schiavi e ci impedisce di convertirci, è il diavolo (divisore) che ci impedisce di accettare il Cristo così come è, allontanandoci da Dio e dagli uomini.

Pietro non riesce a pensare secondo Dio che ci dona la parola di vita nella morte di Cristo e resta prigioniero del pensiero dell’uomo e della propria morte; in questo è il prototipo del discepolo che non riconosce la propria nullità e non si abbandona totalmente nelle mani di Dio per vivere secondo i suoi disegni. È il Crocifisso vivente il criterio ultimo, decisivo e determinante del rapporto dell’uomo con Dio, con gli altri uomini, con sé stesso. Il problema è accettare il Cristo crocifisso, scandalo per i cristiani e follia per i non cristiani (cfr. 1Cor 1,23); è accettare questa parola che ormai giudica il mondo per la vita e per la morte.

Dal v. 34 Gesù rivolgendosi alla folla indica quali sono le condizioni per mettersi alla sua sequela. La prima condizione si esprime in un versetto chiastico (A-B-B’-A’), dove il mettersi dietro a Gesù vuol dire rinnegare sé stessi e prendere la croce; questi appaiono concetti simili, poiché solo chi è capace di vivere nella logica del dono, vive per l’altro e non secondo i propri interessi. È necessario, però, capire bene il senso di questo prendere la propria croce: la comunità dei discepoli di Cristo non è un popolo di poveri masochisti che cerca la sofferenza come modo per conformarsi al suo Signore; prendere la croce significa assumere completamente la logica d’amore che ha portato Cristo ad offrire la propria vita in “riscatto per molti” (Mc 10,45). Solo nella logica dell’amore generosamente vissuto e condiviso per le sorelle e i fratelli si può comprendere come chi vuole trattenere (salvare) la propria vita, sarà destinato a perderla perché non vivrà pienamente, mentre chi saprà donare (perdere) la propria vita secondo il progetto di Dio, ritroverà la vera vita nei rapporti d’amore che saprà costruire intorno a sé; infatti non c’è nessun tipo di guadagno né in denaro, né in potere o successo che possa riempire la vita come l’affetto delle sorelle e dei fratelli.

L’ultimo versetto riporta un detto di Gesù, che meriterebbe una traduzione migliore: “vi sono alcuni, qui presenti, che non gusteranno la morte prima di aver visto giungere il regno di Dio nella sua potenza”. Qui l’evangelista si riferisce a tutti i discepoli che sapranno seguire Cristo fin sul Calvario sotto la sua croce, essi sapranno vivere pienamente la loro esistenza nella logica del dono e non saranno toccati dalla morte poiché sapranno costruire intorno a loro quel regno d’amore, che Gesù è venuto ad inaugurare.


[1] Fil 3,4-11: Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all'età di otto giorni, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.