Proseguiamo
il nostro cammino “con Marco alla scoperta di Gesù” e compiamo il nostro
personale e comunitario giro di boa, infatti con la lettura di questa sera
concludiamo la prima parte del vangelo di Marco ed iniziamo con un breve brano
la seconda. È lo stesso Marco che ci suggerisce questa suddivisione: 1) Mc 1,1:
“Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”; 2) Mc 8, 29b: “Pietro gli
rispose: Tu sei il Cristo”; 3) Mc 15,38: “Davvero quest'uomo era Figlio di Dio!” Oggi
non siamo soltanto al cuore del vangelo, ma anche del nostro personale
itinerario di fede. Alcune domande ci rivolgerà il Signore: “Non capite
ancora?”, “Vedi qualcosa?” e soprattutto la domanda fondamentale di tutta la
nostra vita “Ma voi, chi dite che io sia?”. Stasera
queste stesse domande vogliamo sentirle risuonare nel cuore delle sorelle e dei
fratelli che condividono con noi questo pellegrinaggio spirituale come
popolo/comunità. |
Mc 8,1-10: (Seconda moltiplicazione dei pani) In
quei giorni, poiché vi era di nuovo molta folla e non avevano da mangiare,
chiamò a sé i discepoli e disse loro: “Sento compassione per la folla; ormai da
tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Se li rimando digiuni alle
loro case, verranno meno lungo il cammino; e alcuni di loro sono venuti da
lontano”. Gli risposero i suoi discepoli: “Come riuscire a sfamarli di pane
qui, in un deserto?”. Domandò loro: “Quanti pani avete?”. Dissero: “Sette”.
Ordinò alla folla di sedersi per terra. Prese i sette pani, rese grazie, li
spezzò e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero; ed essi li
distribuirono alla folla. Avevano anche pochi pesciolini; recitò la benedizione
su di essi e fece distribuire anche quelli. Mangiarono a sazietà e portarono
via i pezzi avanzati: sette sporte. Erano circa quattromila. E li congedò. Poi
salì sulla barca con i suoi discepoli e subito andò dalle parti di Dalmanutà. |
Confrontando
questo secondo racconto della moltiplicazione dei pani con il primo (Mc
6,35-44) si può notare l’andamento del tutto parallelo dei due brani: la
compassione di Gesù per la folla, il dialogo con i discepoli, la domanda di
Gesù sul numero dei pani, la distribuzione dei pani ad opera dei discepoli dopo
la benedizione e la frazione del pane, la distribuzione dei pesci, la raccolta
degli avanzi, il congedo della folla e la traversata sul lago. Queste
somiglianze ci fanno sospettare che l’episodio in questione potesse essere soltanto
uno riletto in due modi diversi dall’evangelista. Oltre le similitudini è
facile scorgere alcune differenze: i pani sono sette e non cinque, si parla di
alcuni pesci e non di due, gli avanzi vengono raccolti in sette sporte e non in
dodici ceste, le persone sfamate furono circa quattromila e non cinquemila. Per
le caratteristiche soprattutto dei numeri gli esegeti sono concordi nel vedere
in questo secondo racconto una versione più elaborata e recente sorta in ambito
pagano rispetto alla prima chiaramente di origine giudeo-cristiana. Ma
piuttosto che discutere se le due versioni si riferiscono ad un solo episodio,
mi pare importante cercare di capire perché Marco ha voluto scrivere questo
secondo racconto. Certamente i due racconti segnano l’inizio di due successivi
momenti di riflessione della comunità sulla propria esperienza nel capire chi è
Gesù ed il secondo momento appare come un approfondimento del primo. Marco
invita la sua comunità a riflettere più a fondo sul significato centrale
dell’eucaristia; in essa noi celebriamo come memoriale la storia della salvezza
non solo del popolo di Dio, ma anche della nostra stessa personale storia di
salvezza. Nell’eucaristia celebriamo il memoriale della passione e morte di
Gesù, che continuamente si ripete; essa diventa per noi memoria scomoda e
sovversiva, che ci impedisce di adeguarci alla situazione presente, anzi ci
stimola a trasformare noi stessi e tutta la realtà che ci circonda in un
cammino di liberazione e di vita nuova verso un mondo pieno di giustizia, di
pace e di amore; allora ciò, di cui il nostro spezzare il pane è un timido
segno, sarà la grande realtà che abbraccerà tutta la terra. È
proprio nella frazione e nella distribuzione del pane che la comunità professa,
non a parole ma coi fatti, la presenza viva di Gesù come Messia. È unico il
pane, perciò bisogna che sia spezzato (condiviso) perché tutti ne possiamo
vivere: nella celebrazione perché sia reso possibile nella vita e nella vita
perché abbia un senso nella celebrazione. Gesù prende l’iniziativa, invitando indirettamente i
discepoli a sfamare la folla. Questa compassione, che si manifesta nel dono del
pane, è posta in stretta connessione con l’ultima cena, segno del dono che Gesù
farà di sé al mondo sulla croce, dove egli diventerà pane spezzato per la vita
di tutti. Allora il significato profondo dell’eucaristia lo si ritrova nella
celebrazione della storia di salvezza e nella condivisione del pane per tutti.
Di fronte all’incomprensione dei discepoli, Gesù risponde richiamandoli ancora
una volta non a ciò che possono comprare, ma a ciò che già hanno e possono
dividere e dare. Al non capire dei discepoli e dei cristiani, Gesù contrappone
la sua compassione che si fa incontro all’uomo. |
Mc 8,11-21: (I farisei e il loro lievito) Vennero i farisei e si
misero a discutere con lui, chiedendogli un segno dal cielo, per metterlo alla
prova. Ma egli sospirò profondamente e disse: “Perché questa generazione chiede
un segno? In verità io vi dico: a questa generazione non sarà dato alcun
segno”. Li lasciò, risalì sulla barca e partì per l'altra riva. |
La presenza dei farisei serve per mostrare il motivo
profondo per cui i discepoli non capiscono il significato dei pani. Tale
incomprensione dipende da un intimo atteggiamento farisaico, che è come un
lievito di corruzione; tale lievito consiste nel desiderio innato nell’uomo di
chiedere, di avere un segno. Il segno è un rimando a qualcos’altro e cessa la
sua funzione quando è giunta la realtà di cui è segno; così Dio è ormai
realmente presente in mezzo a noi nel dono che Gesù ha fatto di sé sulla croce.
Noi, spezzando lo stesso pane siamo in comunione con il corpo di Cristo morente
e abbiamo accesso totale al Padre che è amore; bevendo lo stesso calice,
riceviamo il suo medesimo Spirito di vita, che ci fa amare tutti come fratelli,
figli dell’unico Dio. Chiedere un segno vuol dire non aver colto la realtà del
Dio vivo presente nell’amore tra gli uomini; invece di chiedere segni, bisogna
vivere sul serio questa realtà. Cercare un Dio dagli effetti speciali ci
impedisce di accogliere il vangelo, gioioso annuncio che Dio è qui, uno di noi,
nell’uomo Gesù. I farisei, con la loro idea umana di Dio, sono affamati di
prodigi e cose grandi ed attendono la bontà di Dio come soluzione miracolosa
per tutti i problemi. Fu la corrente apologetica della fine del II secolo d.C.
ad utilizzare i segni, i miracoli per dimostrare la divinità di Gesù e
l’intervento nella storia di Dio contro chi negava tutto questo; ancora oggi
noi subiamo l’influsso negativo di tutto ciò. È bene ricordare come Gesù
rifiuti di dare tale fondamento alla nostra fede, poiché questo tipo di
religiosità è un comodo mezzo di evasione dalla nostra realtà quotidiana (oppio
dei popoli). Il vangelo ci propone una religione incarnata in cui Dio stesso si
è come annientato, si è fatto uomo, uno di noi. Gesù è l’antisegno, scandalo
per i religiosi e follia per i benpensanti (cfr. 1Cor 1,23): la fede in Lui si
fonda nel riconoscere nella sua debole umanità crocifissa il mistero dell’amore
di Dio che ci è venuto incontro in Gesù, pane per tutti. Ai “segni celesti” il
messaggio di Gesù contrappone le “realtà terrestri”. Nella seconda parte del brano, la cecità dei discepoli di
fronte al pane, nel quale Gesù si rivela raggiunge il vertice: per ben 5 volte
si nomina il pane e per ben 7 volte, in altrettante domande di Gesù è
sottolineata la loro incomprensione, poiché le domande rimangono senza
risposta. Si noti che nella barca, simbolo della Chiesa i discepoli hanno
portato un pane solo, che è Cristo in mezzo a loro nell’amore fraterno. Eppure
i discepoli proclamano di non avere pane. Questo pane, Gesù, per esprimere la
sua forza deve essere liberato dalla corruzione ideologica della legge e dalla
corruzione economico-politica del potere. Abbiamo già parlato del lievito dei
farisei ovvero di quel sentimento religioso che si radica nella legge, ponendo
Dio fuori dall’uomo; a ciò si aggiunge il lievito di Erode, cioè il dominio di
un uomo su un altro uomo. Mentre la legge, impersonata dai farisei, è
un’opposizione ideologica al vangelo, il potere incarnato da Erode è
un’opposizione pratica ad esso. La comunità deve pertanto vivere di quell’unico
pane che è lo Spirito di Gesù Cristo, cioè l’amore di Dio che si esprime
nell’amore concreto verso il prossimo. C’è quindi una legge ben precisa anche
per noi, la sola che abbia valore assoluto: la persona stessa di Gesù, che si è
donato per amore. Ecco il senso del comandamento nuovo, la cui novità non sta
nel comando dell’amore, ma nella misura che ci è stata data per verificare
questo nostro amore. Gesù chiede ai suoi discepoli di ricordare il fatto dei
pani: nella bibbia il ricordo dei prodigi di Dio è il veicolo della rivelazione
della sua fedeltà; dal ricordo scaturisce il riconoscimento di Dio, la lode per
le sue opere e la speranza per il futuro. Gesù conclude le sue sette domande dicendo “Non capite ancora?” Questo mostra come sia impossibile all’uomo penetrare nel mistero del pane di vita: esso ci resta sette volte, cioè totalmente, incomprensibile, senza un intervento di Cristo che faccia cadere dai nostri occhi le scaglie della legge e del potere. Sarà questo il senso del brano successivo. |
Mc 8,22-26: (Guarigione di un cieco a Betsaida) Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: “Vedi qualcosa?”. Quello, alzando gli occhi, diceva: “Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano”. Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: “Non entrare nemmeno nel villaggio”. |
Se la cecità dei discepoli ha raggiunto il suo culmine il
miracolo del cieco di Betsaida, indica la conversione che Gesù va operando nei
suoi discepoli perché lo riconoscano come Messia, l’inviato di Dio, in cui si
adempie la speranza della promessa. Tale conversione è frutto di un ripetuto
intervento di Gesù: in un primo tempo il
cieco intravede solo qualcosa di impreciso; Gesù domanda “Vedi qualcosa?” e la
risposta del cieco mostra quanto ancora si sia lontani da una vera conversione.
Dobbiamo riconoscere col cieco che spesso non vediamo proprio nulla, oppure la
nostra fede è ancora tanto confusa da scambiare gli uomini per alberi, ovvero
non vediamo gli uomini nella loro dignità di figli di Dio, ma come delle cose,
strumentalizzandoli per i nostri scopi. Così li manipoliamo, li dominiamo e
siamo incapaci di amarli, di considerarli come fratelli e di spezzare con loro
il pane dei figli che Dio ci ha dato. Allora è necessario un intervento
successivo: il vangelo ci vuole portare proprio a questo, a vedere cioè più
chiaramente in Gesù, che si dona come pane di vita, la liberazione definitiva
che Dio aveva promesso e che noi dobbiamo vivere.
Siamo così giunti al centro non solo di questo nostro
incontro, ma di tutto il vangelo di Marco perché siamo posti davanti alla
domanda fondamentale della nostra vita. Analizzerei quindi ogni singolo
versetto di questo brano: “verso i villaggi intorno a Cesarea e per la strada...”: questa
precisazione indicazione di luogo in Marco, che solitamente ne è così scarso,
assume un particolare valore. Questa località si trova al confine tra il territorio
giudaico e il mondo pagano. Se da un lato indica che Gesù dopo tanto girovagare
comincia il suo viaggio verso Gerusalemme, dall’altro il luogo è anche simbolo
di un atteggiamento spirituale; anche la nostra identità come comunità si fonda
sul sentirsi alle porte della Chiesa con lo sguardo sempre pronto ad aprirsi
verso orizzonti nuovi. “Interrogava i suoi discepoli”: Fino a questo punto della
narrazione, erano sempre stati i discepoli e la folla a chiedersi chi era Gesù;
ora invece, è Gesù stesso per la prima volta a chiedere loro chi è lui. Qui
avviene il capovolgimento al quale Marco ci vuole portare, capovolgimento che
avviene in ogni cristiano, quando comincia a tacere la sua domanda su Gesù e si
lascia interpellare dall’incontro con la persona di Gesù. La domanda che Gesù
fa è duplice, perché duplice è la risposta. C’è la risposta degli uomini che
scambiano Gesù per una figura del passato, è la “risposta della carne”, che non
riesce a cogliere il mistero di Cristo, ed è la stessa risposta sbagliata,
nella quale rischiava di cadere la comunità di Marco che non sapeva riconoscere
il Cristo presente nel “fatto dei pani”. Questa conoscenza di Cristo secondo la
carne identifica colui che è il vivente con ciò che è morto. È la risposta
dell’ovvietà religiosa, che tende a porre lontano, e rende meno scomodo, Colui
che è vicino, vivo e presente. In questo modo il Cristo viene neutralizzato,
viene liquidato elegantemente, ornandone il sepolcro con titoli onorifici. La seconda domanda si contrappone alla prima “Ma voi, chi
dite che io sia?” e richiede una risposta che è un “ma” rispetto alla risposta
secondo la carne; un “ma” che si contrappone a tutti i criteri del mondo,
religioso o no; un “ma” che proviene dalla vita vissuta di un “voi” ecclesiale,
comunitario, popolare di coloro che sono guariti dalla cecità, dalla sordità e
ora possono annunciare Cristo. Si tratta della provocazione essenziale del vangelo, che
continuamente ci mette in discussione e ci chiama a uscire da noi stessi e dai
nostri criteri mondani di valutazione e azione; è la provocazione permanente
che Cristo fa alla sua Chiesa, alla sua comunità, al suo popolo perché sappia
liberarsi dal lievito della legge e del potere per restare aperta alla novità
del dono. Dobbiamo saper rinunciare a tutte le nostre categorie e
sovrastrutture religiose e morali (Cfr. Fil 3,4-11)[1]. Si
tratta della conversione più radicale che ci porta a scoprire Dio non come lo
intendiamo noi, ma come si è rivelato in Gesù, attraverso la sua parola eterna,
piena e definitiva, manifestata agli uomini. Pertanto questa seconda risposta
deve sempre costituire un “ma” rispetto a quanto si riteneva acquisito per
giungere alla rivelazione in noi della persona di Cristo, come dice Paolo: “non
sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) ed ancora “per me vivere
è Cristo” (Fil 2,21). Infine questa risposta non è astratta, ma incarnata da un
“voi” che comprende tutto il popolo di Dio che vuole seguire Cristo. Questa seconda risposta “tu sei il Cristo!” è giusta, ma solo parzialmente, perché non vi è contenuta l’accettazione del Cristo così come è, infatti Pietro cerca ancora di impossessarsene e manipolarlo, facendone un Cristo secondo la carne, a nostra misura. Non è ancora giunto il momento di annunciare Cristo, è meglio stare zitti; infatti bisogna saper ascoltare e accettare il mistero di Gesù che si rivelerà come figlio di Dio soltanto sulla croce, facendoci dono della vita di Dio.
Inizia così la seconda parte del vangelo di Marco, quella in
cui comincia la manifestazione aperta del mistero dell’amore infinito di Dio;
Gesù annuncia che cosa significhi per lui essere il Messia e per quale via si
sarebbe realizzata la sua missione e Pietro non capisce: quanto siamo meschini
quando tentiamo di insegnare a Dio a fare il dio! Per tre volte da questo momento nel vangelo di Marco Gesù
annuncerà la sua passione sempre seguendo lo stesso schema: un’esperienza
esaltante; l’annuncio; una prima reazione negativa degli apostoli; una serie di
istruzioni agli apostoli per orientarli alle nuove prospettive evangeliche. Gesù spiega come la salvezza vada vissuta attraverso il dono
pieno e totale della propria vita; se è vero che Gesù è il Cristo, speranza
dell’umanità, tale speranza passa attraverso la croce, poiché il Cristo è il
Crocifisso. A volte cerchiamo di costruirci il nostro Cristo e la nostra
salvezza su misura, ma Dio ci smentisce. Il dono che ci è fatto in Gesù supera
ogni attesa umana nel modo e nel contenuto. Questa distanza tra il pensiero di
Dio e il pensiero dell’uomo costituisce il cuore del vangelo: non è possibile
per l’uomo pensare che Dio ci ami così tanto, ci “ami da morire”. Questa parola
di salvezza, che è Gesù, nella fedeltà a Dio e all’uomo, non può che entrare in
contrasto con il potere economico, politico e religioso, fino a subire la condanna
ad una morte violenta. Accogliere il vangelo esige così una conversione
radicale, in cui l’uomo possa uscire da sé stesso e dai propri criteri per
accettare e vivere secondo la logica di Dio. Pensare secondo gli uomini e non
secondo Dio è la tentazione tipica dell’uomo, è il satana (ostacolo) che ci
tiene schiavi e ci impedisce di convertirci, è il diavolo (divisore) che ci
impedisce di accettare il Cristo così come è, allontanandoci da Dio e dagli
uomini. Pietro non riesce a pensare secondo Dio che ci dona la
parola di vita nella morte di Cristo e resta prigioniero del pensiero dell’uomo
e della propria morte; in questo è il prototipo del discepolo che non riconosce
la propria nullità e non si abbandona totalmente nelle mani di Dio per vivere
secondo i suoi disegni. È il Crocifisso vivente il criterio ultimo, decisivo e
determinante del rapporto dell’uomo con Dio, con gli altri uomini, con sé
stesso. Il problema è accettare il Cristo crocifisso, scandalo per i cristiani
e follia per i non cristiani (cfr. 1Cor 1,23); è accettare questa parola che ormai
giudica il mondo per la vita e per la morte. Dal v. 34 Gesù rivolgendosi alla folla indica quali sono le
condizioni per mettersi alla sua sequela. La prima condizione si esprime in un
versetto chiastico (A-B-B’-A’), dove il mettersi dietro a Gesù vuol dire
rinnegare sé stessi e prendere la croce; questi appaiono concetti simili,
poiché solo chi è capace di vivere nella logica del dono, vive per l’altro e
non secondo i propri interessi. È necessario, però, capire bene il senso di
questo prendere la propria croce: la comunità dei discepoli di Cristo non è un
popolo di poveri masochisti che cerca la sofferenza come modo per conformarsi
al suo Signore; prendere la croce significa assumere completamente la logica
d’amore che ha portato Cristo ad offrire la propria vita in “riscatto per molti”
(Mc 10,45). Solo nella logica dell’amore generosamente vissuto e condiviso per le
sorelle e i fratelli si può comprendere come chi vuole trattenere (salvare) la
propria vita, sarà destinato a perderla perché non vivrà pienamente, mentre chi
saprà donare (perdere) la propria vita secondo il progetto di Dio, ritroverà la
vera vita nei rapporti d’amore che saprà costruire intorno a sé; infatti non
c’è nessun tipo di guadagno né in denaro, né in potere o successo che possa
riempire la vita come l’affetto delle sorelle e dei fratelli. [1]
Fil 3,4-11: Se qualcuno
ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso
all'età di otto giorni, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo
figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore
della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della Legge,
irreprensibile. Ma queste cose, che per me erano guadagni,
io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto
sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio
Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero
spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come
mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede
in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io
possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue
sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere
alla risurrezione dai morti. |