43° Campo di Comunità Una                   Roburent, venerdì 11 agosto 2023

Accoglienza - Condivisione - Fraternità

(trascrizione della presentazione a voce, non rivista dall'autore)


Quando mi è stato dato il titolo per questa condivisione, subito ho pensato ad un brano biblico che contenesse insieme queste parole e, vi giuro ci ho messo pochi secondi, neanche fosse una ricerca di Google, ma quel brano che avevo in mente NON volevo proprio leggerlo, tanto era conosciuto sia da me quanto da tutti voi. Poi, anche seguendo concordanze bibliche, devo ammettere non ne ho trovato altri e quindi sono ritornato sulla mia prima scelta, per cui ora leggiamo il ben noto brano di Atti 2:

"La prima comunità cristiana" (At 2, 42-47)

[42] Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. [43] Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. [44] Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; [45] vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. [46] Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, [47] lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

Mi sono subito domandato: "ma queste parole parlano solo ai discepoli di Cristo, ai cristiani? Oppure hanno un senso anche per altre persone?". Penso che sia così. Per questo ho suddiviso questa mia riflessione in due parti: una "laica", cioè rivolta a persone di ogni fede, cristiane, credenti o non credenti, che vivono nel mondo, e una invece rivolta a persone come noi, credenti in Cristo, e a noi di Comunità in particolare, che condividiamo un tipo di spiritualità più volte ribadita nei nostri documenti più importanti e nella "Carta Verde" in particolare.

Bene, cominciamo dalla riflessione "laica", rivolta a tutti, e cominciamo dalla parola "fraternità". La prima cosa che mi è venuta a mente è il motto della Rivoluzione Francese: "libertà, uguaglianza, fraternità" e mi sono subito trovato nella brutta situazione di dirmi che libertà e uguaglianza sono state parole d'ordine di grandi idee economiche, filosofiche e sociali di questi ultimi duecentotrenta anni, come il liberalismo e il socialismo o comunismo. Poi questi sistemi hanno portato anche a dei disastri, oltre che a cose buone, ma quello che mi preme sottolineare è che queste parole, in qualche misura, hanno portato un sogno alle persone, un'idea di futuro. Poi uno può mettersi più da un lato o più dall'altro: la libertà di poter esprimere le proprie capacità e di poter ottenere benefici economici in base ai propri meriti e l'uguaglianza dei diritti sociali. Perché invece la fraternità è rimasta nascosta? Il liberalismo (o capitalismo) e il socialismo/comunismo non hanno mai pensato alla fraternità come via per raggiungere gli obiettivi. Perché? Perché da una parte c'è il "mio" da difendere, come la proprietà privata, mentre dall'altro c'è in un certo senso l'annullamento dell'individuo in nome dell'uguaglianza tra tutti (ma poi la storia recente ci insegna che in realtà si era creata, nei paesi comunisti, una "nomenklatura", l'elenco delle persone che occupavano le posizioni più alte nel partito e che approfittavano del loro ruolo per arricchirsi, per cui anche lì le differenze sociali erano diventate molto alte).
Allora mi sono chiesto se non sarebbe il tempo di proporre la fraternità come parola chiave per gestire meglio la vita delle persone. In realtà se lo è chiesto il vescovo di Roma, papa Francesco, che ha proposto la fraternità come nuova idea per un mondo più umano, più solidale, più giusto... più secondo il progetto di Dio. Credo che come cristiani dobbiamo incamminarci su questa strada. Ora, per noi cristiani la parola "fraternità" dovrebbe essere chiara, dal momento che, nel dire "Padre nostro", ci riconosciamo automaticamente tutti fratelli e sorelle. Papa Francesco, per farla capire meglio, l'ha chiamata "amicizia sociale", e per spiegarla ha commentato una parabola che noi ben conosciamo e che ora leggiamo:

"Il buon Samaritano" (Lc 10, 29-37)

[29] Il dottore della legge, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». [30] Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. [31] Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. [32] Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. [33] Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. [34] Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. [35] Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». [36] Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». [37] Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».

In questa parabola troviamo il "decalogo" della fraternità. Se vogliamo vivere la fraternità con il mondo, con tutti gli altri, bisogna che facciamo alcune cose. Intanto notiamo che Gesù prende come esempio un Samaritano, di un popolo "bastardo", perché si era mischiato con gli Assiri già nel 720 a.c., facendo con loro una commistione anche religiosa. Come controesempio Gesù mette un sacerdote e un levita, un teologo e un curato di campagna, potremmo dire oggi. Del malcapitato non sappiamo niente, perché Gesù non lo dice, e non lo dice perché non era importante. Poteva essere anche uno che truffava e i soldi che aveva erano frutto di crimini: se voglio essere come il Samaritano, non devo stare io a giudicare la persona che ho di fronte, ma devo farmi prossimo alla persona che ho davanti.

E cosa devo fare? Prima di tutto vederlo! Quante volte faccio finta, come il levita e il sacerdote, di non vedere la sofferenza che ho intorno? "Ho da fare... i miei figli... i miei problemi". Se voglio essere come il Samaritano apro gli occhi sulle situazioni del mondo, sulle situazioni di sofferenza, perché è lì che sono chamato ad agire, non da altre parti. Devo vivere quel momento lì, quella situazione lì.
Il sacerdote e il levita passano oltre perché, recandosi a Gerusalemme, il semplice fatto di toccare il sangue di quest'uomo li avrebbe resi "impuri", inabili alla liturgia. Nel film "Il villaggio di cartone", visto giorni fa, c'è la situazione in cui la chiesa sconsacrata, in cui non si può più celebrare l'eucarestia, diventa il luogo della carità vissuta, con quegli immigrati che stavano nascondendosi e scappando, ed è in quel momento che il vecchio parroco capisce quanto tempo aveva buttato via. Il primo comandamento di questo decalogo è quindi "guardare", "aprire gli occhi".

La seconda azione del Samaritano è "gli si fece vicino". Non scappa da un'altra parte, non pensa ad altre cose. Uno dei pezzi più belli, secondo me, scritti dalla Chiesa Cattolica, è l'inizio della "Gaudium et Spes" quando viene detto che le sofferenze e i dolori, le gioie e le speranze degli uomini sono le gioie e le speranze della Chiesa, e quindi di noi, come persone che provano a vivere secondo gli insegnamenti del Cristo ("Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore"). Il secondo passo quindi è "andare presso", "avvicinarsi".

Perché? Per "averne compassione", che è il terzo passo. Sono gli stessi sentimenti di Gesù, di Dio, come abbiamo visto ancora oggi nella parabola del padre misericordioso (nella seconda riflessione del Campo), quel Dio che è amore, che ha compassione, patisce insieme, si mette accanto nella sofferenza, non ha paura di assumere la sofferenza.

Ecco, il Samaritano "gli si fece vicino". Farsi prossimo, per condividere la sofferenza, che è il quarto passo: "gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino". Ecco, bisogna cominciare a fare delle cose, a fasciare le ferite di questo mondo. Come? Con l'olio e col vino. L'olio della consolazione e il vino della gioia: siamo chiamati a portare consolazione e gioia. Ma, attenti! Non perché noi stessi siamo consolati e gioiosi! Magari uno sta vivendo anche un momento di sofferenza, ma questo non lo esonera dal cercare di essere gioia e consolazione per il mondo! È certamente la cosa più difficile, perché tante volte siamo disfatti da problemi di salute, malattie, vecchiaia, ecc., ma anche lì, in quelle situazioni, noi abbiamo dentro di noi un po' di gioia e di consolazione da portare al mondo! Non portarla è un peccato di omissione.

Il samaritano "lo caricò sulla sua cavalcatura": questo vuol dire "farsi carico". Magari oggi noi non ce la facciamo più tanto,
ma comunque farsi carico significa creare le condizioni per supportare queste persone. Il Samaritano non solo lo cura, ma si fa carico del malcapitato e lo porta in un luogo sicuro: "lo portò in un albergo". Nella versione greca c'è una parola, che non ricordo bene, ma che dice in sostanza che il luogo, l'albergo, era "universale", cioè aperto a tutti, che accoglieva tutti, come dovrebbe essere la chiesa "cattolica". Non ci si domanda se questo è meritevole o meno: è una persona, punto! Per la fede cristiana l'altro è un figlio di Dio, che sia buono o cattivo: quella è una questione della sua coscienza.

Il samaritano lo portò in un albergo e "si prese cura di lui". È un'espressione che papa Francesco usa spesso: "avere cura". Prendersi cura delle situazioni, prendersele a cuore. Non soltanto nel momento dell'emergenza, ma essere attenti all'altro, in tutte le sue componenti. "Tirò fuori due denari": dove non arrivo io ci può arrivare un altro, come avevo detto poco fa. Se non ce la faccio coinvolgo qualcun altro e lo sostengo.

E infine tornare, per saldare il conto («Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno»). Nella parabola il Samaritano aveva lasciato due denari, la quantità ritenuta necessaria per vivere un paio di giorni, il tempo per passare da lì al ritorno. Il punto da sottolineare è proprio questo: tornare sulle situazioni, non abbandonare l'altro. Come spesso riusciamo a fare anche noi, quando abbiamo avuto vicino persone che avevano bisogno di noi e che, anche quando le nostre strade si sono separate, le abbiamo tenute nel cuore, abbiamo continuato a sentirle, siamo rimasti in contatto, siamo andate a trovarle.

Tutto questo è una proposta, la proposta che papa Francesco ha fatto e che è importante soprattutto per noi credenti, discepoli di Cristo, perché ci ricorda quello che è importante da vivere, da fare, ma che è rivolta a tutti, credenti o no: la fraternità o "amicizia sociale". Questa, come abbiamo visto analizzando la parabola del buon Samaritano, si concretizza nella condivisione, nel mettere a disposizione le proprie risorse, e nell'accoglienza, una questione oggi in primo piano per  le ondate migratorie, ma anche importante, e papa Francesco lo sottolinea spesso, riguardo all'inclusione delle persone con difficoltà, anziani ma anche giovani: è tutto l'essere umano che è importante. Una proposta che certamente incontra molte resistenze e non solo riguardo all'accoglienza e inclusione dei migranti, ma anche riguardo alla solidarietà sociale: è ovvio che se si riduce la progressività della tassazione, chi ha tanti soldi pagherà molto meno e ci saranno meno risorse economiche per i Servizi Sociali, per la Sanità Pubblica, ecc.



Fin qui ho cercato di vedere come queste parole possano essere accolte nella società laica. Ora proviamo a vedere che cosa queste tre parole possano dire a noi che abbiamo vissuto e proviamo a vivere un percorso sulle orme di Cristo.
Vorrei cominciare dalla parola "condivisione".
Per questa riflessione sono andato a cercare alcune cose, in particolare tra i documenti di don Prospero, e proverò a rileggerli ad oltre trentacinque anni di distanza, per vedere se hanno ancora un senso per noi.
Prima però voglio far parlare la parola di Dio con un breve brano del Vangelo di Matteo, al cap. 14:

"Prima moltiplicazione dei pani" (Mt 14, 15-21)

[15] Sul far della sera, gli si avvicinarono i discepoli e gli dissero: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare». [16] Ma Gesù disse loro: «Non occorre che vadano; voi stessi date loro da mangiare». [17]  Gli risposero: «Qui non abbiamo altro che cinque pani e due pesci!». [18] Ed egli disse: «Portatemeli qui». [19] E, dopo aver ordinato alla folla di sedersi sull'erba, prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla. [20] Tutti mangiarono a sazietà, e portarono via i pezzi avanzati: dodici ceste piene. [21] Quelli che avevano mangiato erano circa cinquemila uomini, senza contare le donne e i bambini.

Quindi circa venticinquemila persone, tenendo conto delle mogli e del numero medio di figli di un ebreo. C'è una traduzione in cui alcune parole sono state invertite: «Non occorre che vadano; date loro voi stessi da mangiare». Messa così, il senso potrebbe essere esattamente lo stesso, con "voi stessi" soggetto, ma potrebbe anche cambiare radicalmente, se si intende "voi stessi" come complemento oggetto, ossia "voi date da mangiare voi stessi". Questo potrebbe essere il senso di un gesto che proveremo a fare oggi, dopo la riflessione, tutti insieme.

Che cos'è la condivisione? Ho trovato questa definizione: "è il gesto (si noti: gesto, non parole) con cui metto una pagina della mia vita nelle mani dei fratelli, riuniti attorno al Vangelo, affinché essi possano scriverci sopra quello che sentono essere la volontà di Dio per me" (don Prospero Bonzani) (Vedasi la pagina "Il dono della condivisione" del documento del 1995 "I doni della Comunità"). Questa è la condivisione, non raccontarsi l'ultima cosa che mi è accaduta, sebbene anche questo possa far parte della condivisione. È un gesto col quale io metto la mia vita nelle mani delle altre persone, fratelli e sorelle attorno a me, alla luce del Vangelo. Quello è il senso vero, perché se non ci fosse il Vangelo ad illuminare per voi la mia vita, io non la metterei nelle vostre mani, farei proprio fatica.
Poi il documento proseguiva dicendo quali erano le difficoltà della condivisione, come la riservatezza o la paura di farsi conoscere, cose che in gran parte, per noi che ci conosciamo da tantissimi anni, potrebbero essere superate.
Però c'è un'altro pericolo, che è quello della superficialità. La superficialità mia, innanzi tutto, ad esempio quando "so già che l'altro dirà questa cosa qua". Quindi non lo prendo sul serio, non lo ascolto nel profondo. E io chiedo perdono per tutte le volte in cui ho avuto questa superficialità nei vostri confronti. Quando uno condivide cose di sé, ci mette il suo cuore, e la sua condivisione è sempre un dono. Come parallelo, posso pensare a quante volte abbiamo sentito lo stesso brano di Vangelo, come la parabola del buon Samaritano letta prima, eppure ogni volta che la sento mi può dire qualcosa di nuovo, perché sono diverso io e colgo sfumature diverse. E così anche se Remo o Sergio oggi mi dicono la stessa cosa detta un anno fa, io devo scoprire nelle parole dette una cosa nuova della persona che non avevo colto negli anni precedenti. La condivisione deve essere ascoltata come novità.
Ci sono molte altri aspetti importanti della condivisione, che potete trovare sul sito di Comunità, nell'Archivio storico (documento "I doni della Comunità"), ma qui tocco solo alcuni punti. Ad esempio che la condivisione non è spontanea, se è vera, ma è preparata, come quando vado a confessarmi. Allora, prima del'incontro di gruppo, posso fermarmi a riflettere su cosa mi dice la pagina di Vangelo che leggeremo, oppure pensare al momento che sto vivendo, magari un momento difficile.
La condivisione non si preoccupa che gli altri siano curiosi o interessati alla mia vita, ma soprattutto la condivisione è fatta con la convinzione che essa sia un allenamento per cambiare la mia vita. Mentre condivido io colgo come posso convertirmi, a 55, a 70, a 75 anni, sempre!
Una frase che trovo veramente importante, significativa è questa: "Non posso pensare di poter condividere senza fare la fatica di passare in moviola prima i fatti e poi i sentimenti". Non solo racconto i fatti, ma anche cosa ho provato, essere arrabbiato per quello o felice per quell'altro.
"Non penserò di poter lasciare la condivisione così come ero prima che iniziasse": la condivisione si apre automaticamente alla custodia fraterna. Quando condivido, metto la mia vita nelle mani dei fratelli alla luce del Vangelo.

Passo ora alla parola "accoglienza", leggendo un breve brano del Vangelo di Matteo:

"Conclusione del discorso apostolico" (Mt 10, 40-42)

[40] Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. [41] Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. [42] Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

Io che sono "bastardo" nel fare le pulci anche al Vangelo, quando l'avevo letta per una condivisione del sabato, mi ero chiesto: "ma qual'è la ricompensa del profeta?". E, oggi, qual'è la ricompensa di chi è giusto? Viene quasi da ridere, perché i profeti e i giusti, in questo mondo, non è che ricevano delle grandi ricompense. Quindi è certo che non ci sono da aspettarsi ricompense da parte di questo mondo!

In un documento di Avvento di don Prospero degli anni '90, "Spiritualità dell'Accoglienza" (con sottotitolo "Una traccia per l'Avvento come scuola per imparare ad accogliere l'Altro, chiunque sia", che potete trovare sul sito di Comunità: "Spiritualità dell'Accoglienza") si trova questa frase subito all'inizio: "Il primo atteggiamento di fede davanti all’altro è quello di inginocchiarsi davanti a lui". E perché questo? Perché l'altro è immagine di Dio: mi inginocchio difronte a Dio se mi inginocchio difronte all'altro! Sono capace, domandava don Prospero, di venerare l'altro? Il migrante che mi trovo davanti lo devo venerare. Che sia musulmano, buddhista o altro, è comunque immagine di Dio.
Le nostre simpatie non devono essere "di pelle" ma "di cuore": per fede decido di provare simpatia per ogni altra persona che incontro perché è un fratello, una sorella, un figlio di Dio! L'altro mi incuriosisce sempre perché è un mondo da scoprire. Ma soprattutto è uno di cui io mi devo sentire responsabile, in particolare responsabile della sua salvezza. Vorrei dire che o ci ritroviamo in Paradiso tutti quanti oppure, se uno di noi osa, ostinatamente, andare all'inferno trascina tutti gli altri con sé. Forse esagero, ma ciascuno di noi deve sentirsi ed è responsabile della salvezza di moglie, marito, figli, fratelli di sangue, fratelli di fede, amici e giù giù di tutti quelli con cui il Signore mi ha messo in contatto.

Leggo ora un altro paio di brevi brani, il primo dal libro della Genesi e il secondo dal Vangelo di Matteo, in quello che è chiamato anche "discorso ecclesiale" o "discorso comunitario", in cui Gesù parla di come dovrebbero essere i rapporti nella comunità dei suoi discepoli:

(Gn 4, 8-9)
[8] Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. [9] Allora il Signore disse a Caino: “Dov'è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”.

"Discorso comunitario" (Mt 18, 15-22)

[15] Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va' e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; [16] se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. [17] Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. [18] In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
[19] In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d'accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. [20] Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
[21] Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.

Che cos'è la "fraternità"? Poco fa dicevo che o ci si salva tutti assieme  o ci si perde tutti assieme. Sì, ma come si fa a salvare anche l'altro? Prima di tutto ammonendolo, dicendogli che quel modo di agire, che quella strada che ha preso può non essere giusta. Poi chiamando altre due o tre persone che gli possano essere vicine, parlargli. Poi ancora coinvolgendo la comunità. E se anche così l'altro persevera nel suo comportamento sbagliato? "Sia per te come il pagano e il pubblicano". Cioè sia per te come un "lontano". Ma siccome Gesù ci chiede di amare anche i nemici, devi continuare ad amarlo in ogni caso.

Riprendo ancora un documento di don Prospero, piluccando qui e là vari pensieri. Il primo è che la correzione fraterna è un dono preziosissimo della vita comune (Vedasi anche la pagina "Il dono della custodia fraterna" del documento del 1995 "I doni della Comunità"), ma normalmente è rarissimo incontrare qualcuno che vuol lasciarsi offrire questo dono perché scatta subito il meccanismo dell’autodifesa. La correzione fraterna non è un procedimento di dinamica di gruppo, ma il frutto di un ambiente che cresce attorno al Vangelo. È un dono che va meritato, diceva Prospero, innanzitutto perché devo avere la capacità di ascoltare la correzione, ma soprattutto perché devo avere la voglia di convertirmi, di cambiare i miei modi di agire, di migliorare. Devo cioè credere che ci sia davvero speranza per il mio cambiamento, assumendo l’abitudine a ringraziare sempre e comunque ogni volta che un fratello/sorella me ne fa dono, anche se avessi l’impressione che sia fuori strada, perché sono comunque consapevole che la sua correzione nasce dall’attenzione alla mia vita. E va da sé che la prima correzione fraterna nasce in famiglia!
Chi fa la correzione deve evitare di voler aver ragione, verificando che la sua correzione non nasca da qualche contrarietà che ha provato verso il fratello, ma nasca unicamente dall’amore, dal desiderio che il fratello cresca in pace ed armonia, dalla speranza che possa realizzarsi in lui il piano di bellezza che il Signore ha per la sua vita. La correzione fraterna non deve il frutto umano di tanto buon senso che i fratelli vorranno dimostrare al fratello, ma soprattutto il frutto di una domanda che essi si sono effettivamente posta riguardo al fratello, mettendosi davanti al Signore ed invocando la sua luce.
Se qualcuno riceve raramente il dono della correzione fraterna, forse è perché non ha saputo dimostrare il suo desiderio di ricevere quel dono o non ha dimostrato disponibilità a pensare ad un sia pur minimo cambiamento di conversione nella sua vita; chi desidera ricevere il dono della correzione deve sapere serenamente, ma seriamente scrutare il vissuto della propria vita, superando la superficialità del tran-tran di tantissime persone.

La forma più fruttuosa di correzione fraterna è spesso quella dell’incoraggiamento fraterno, che possiamo chiamare anche custodia fraterna. L'incoraggiamento fraterno è il volto più gioioso della custodia fraterna, scrive don Prospero, il momento in cui l’occhio attento ed il cuore vigilante dei fratelli è pronto a scoprire tutti i fiorellini di bellezza che l’amore dei fratelli e l’amore del Padre hanno riscaldato e sbocciato nel cuore di quanti si sono lasciati stringere dal loro abbraccio; è più spontaneo rimproverare, ma normalmente è più utile incoraggiare. E questo è frutto dell'amare il fratello o la sorella!
Soltanto un cuore innamorato sente il profumo di quei fiorellini che non sono ancora sbocciati, ma abitano soltanto nel giardino del cuore di Dio e se un cuore innamorato sogna e domanda nella preghiera la rugiada del cuore: è il miracolo dell’amore.
Ciascuno di noi ben ricorda quanto abbia potuto crescere sia attraverso le potature della correzione, ma più ancora per il concime dell’incoraggiamento fraterno.




Introduzione al gesto del pane e del vino

Per concludere questo momento, volevamo proporre, io e Francesco, un gesto con cui mettere una pagina della nostra vita nelle mani dei fratelli riuniti attorno al Vangelo, affinché essi possano scriverci sopra quella che sentono essere la volontà di Dio.
Lo faremo tra un'oretta, nel salone: proveremo a mettere nelle mani dei fratelli una pagina della nostra vita.
Gesù, poco prima di essere arrestato, in quella che noi chiamiamo "l'ultima cena", ha fatto un gesto, quello che è diventata l'eucarestia. Quello che faremo noi NON è l'eucarestia, sia chiaro, ma è un gesto di condivisione, come quello di Gesù. Gesù ha preso del pane e ha detto "questo sono io", e lo ha porto agli altri. Non pensiamo ora alla consacrazione: pensiamo che con quel gesto Gesù porgeva ai discepoli la sua vita. Il nostro gesto sarà quindi quello di dire "offro un pezzo di pane e poche gocce di vino, che sono la mia vita, agli altri".

Vi propongo quindi, in quest'oretta scarsa prima di trovarci nel salone, invece di un tempo di condivisione di gruppo, un tempo di "deserto", di silenzio, anche solo 10', in cui mettere a fuoco il momento della vita che stiamo vivendo e che vogliamo mettere nelle mani dei fratelli, con una breve condivisione del tipo: "sto vivendo questo momento e lo metto nelle vostre mani". Questo lo faremo prima del gesto di prendere da un cesto un pezzetto di pane, intingerlo in una ciotola con del vino e mangiarlo. Da parte di tutti noi ci sarà l'impegno di pregare per questa situazione e, anche in seguito, di prestare attenzione alla sorella o fratello che ce la ha condivisa, di avere nel cuore, di seguirla con qualche forma di accompagnamento, di custodia fraterna.
Per chi non si sente di condividere, magari perché in quel momento troppo pesante, potrà leggere uno dei versetti, lasciati stampati su dei fogli, quello più vicino alla sua sensibilità del momento.