36° Campo di Comunità Una                   Bardineto, lunedì 4 agosto 2014

Eucarestia, celebrazione della vita:

i riti iniziali




Quest'anno abbiamo voluto dedicare il Campo a un approfondimento sull'Eucarestia, sulla Messa, cogliendo soprattutto come questa si intreccia con la nostra vita, con i nostri rapporti con gli altri e con il Dio in cui crediamo. Perché, se la Messa non si intreccia con la vita, fa bene chi non vi partecipa e non disperde tempo e energie in una inutile liturgia esteriore. E se invece l'intreccio tra la partecipazione alla Messa e la vita c'è, è bello che lo riscopriamo e che gli restituiamo lucentezza, che gli togliamo la patina opaca che l'abitudine può averci depositato sopra. In questo Campo vogliamo provarci con riflessioni possibilmente brevi ma che tocchino dei punti significativi.

Cominciamo così dai riti iniziali, anzi, addirittura da prima di andare in chiesa.

Già, noi "andiamo in chiesa", mentre fedeli di altre religioni, o anche di altre confessioni cristiane, vanno al tempio. Tempio è una parola che deriva dal latino e significa "recinto consacrato". Chi va al tempio va quindi in un luogo dedicato al culto, un luogo "sacro". Si sottolinea quindi l'importanza del luogo di per sé, un luogo dove la divinità in qualche modo risiede e dove la si incontra. La parola chiesa invece significa "assemblea", e per i cristiani diventa "la comunità dei fedeli che professano la fede in Gesù Cristo". Andiamo in chiesa quindi non come individui ma come parte di una comunità, e il luogo diventa in un certo senso secondario: quando celebriamo la Messa siamo in chiesa anche in un prato o sulla cima di un monte! (Si noti, per inciso, la somiglianza con la religione ebraica, dove pure il termine "sinagoga" significa assemblea).

Tutto questo per ricordarci che il nostro rapporto con il Signore non può essere solitario, ma noi facciamo parte di una comunità di credenti in Cristo, che si ritrova insieme per celebrare l'eucarestia, collettivamente. Tutto questo può sembrare ovvio, ma sapeste quante volte ho sentito la tentazione di sentirmi separato da tutte le persone che vivono la fede cristiana in un modo molto diverso dal mio. Penso a certe devozioni, processioni, madonne che piangono, padripii, santi con le loro specializzazioni in miracoli... E invece, col passare del tempo, sento che è importante sentirmi parte di un'unica Chiesa. Tutti quelli che, come me, cercano Dio e credono in Cristo, sono miei fratelli nella fede. E quando entro in chiesa so che non sono davanti a Dio come individuo separato, ma insieme a tutti i presenti, anche quelli che a volte mi stanno istintivamente un po' antipatici per questo o quel motivo. E del resto questo è il desiderio che Gesù ha affidato al Padre nella preghiera riportata dall'evangelista Giovanni: "Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato." (Gv 17, 20-21)

Andiamo in chiesa a celebrare l'Eucarestia. E anche questa è una parola da ricordare sempre. Eucarestia significa infatti ringraziamento (anche nel Greco moderno la parola "grazie" è "efcharistò", quasi uguale a eucaristia). L'enciclopedia cattolica in Internet dice: "In occasione della celebrazione dell'Eucarestia, la comunità riunita rende grazie a Dio attraverso Cristo nello Spirito Santo per i suoi innumerevoli benefici". Quando vado a Messa vado quindi a ringraziare. Siamo una comunità di credenti che ringrazia, e vado a ringraziare anche io personalmente. Ripenso a quando, nel Ti Adoro, recitavamo: "Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato questa notte (o quest'oggi)".

Sono felice di essere al mondo? Vivo la vita come un dono? O come una sofferenza? Gioisco per le tante cose che arricchiscono la mia vita, o sento che ho avuto soprattutto delusioni? È importante, sapete, che scopriamo che la vita è di per sé il dono più grande. Dio è Vita, e saper apprezzare ogni momento della nostra vita è saper apprezzare Dio. Vivere intensamente è immergersi in Dio. Non viverlo nella testa, pensando a quello che avevo e non ho più, a quello che non ho e che vorrei, a quello che ho e che temo di perdere, a quello che devo fare per tirare avanti e per migliorare la mia situazione (cosa pure necessaria, ma senza ansia), ecc. ecc., ma viverlo istante per istante. E quando sento che la presenza di Dio in me mi insegna ad apprezzare ogni momento della vita, ecco che sgorga spontaneamente un "grazie!".

E riguardo al mio essere cristiano? Penso che il cristianesimo sia un insieme di obblighi e divieti più raffinato del vecchio decalogo, un insieme giustissimo ma pesante da osservare? Che era meglio non conoscere la via cristiana, così avevamo meno problemi e meno responsabilità? O credo che Gesù, il Figlio di Dio, sia venuto a portarmi una parola di liberazione? Liberazione dalle pastoie dei valori mondani della brama di avere, del potere, dei rancori, della paura di perdere ciò che si ha. "Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò", diceva Gesù (Mt 11, 28). Credo che Gesù sia venuto per espandere la gioia in ciascuno di noi?. "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena" (Gv 15, 11). Non credo si possa fare una specie di elenco completo dei motivi per ringraziare il Signore, ma penso che ciascuno di noi si debba impegnare ogni giorno a scoprire tutti i doni per cui ringraziare, motivi individuali e collettivi. Ed allora veramente faremo "Eucarestia"!

All'inizio dell'Eucarestia c'è subito una benedizione che chi presiede la celebrazione rivolge a tutti i presenti: "La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l'amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi", e noi ricambiamo rispondendo "e con il tuo spirito". Non è una frase messa lì per convenzione, per buona educazione, ma è alla base della nostra vita di figli di Dio. Nella Genesi, quando Dio parla ad Abram e lo invita ad abbandonare la sua casa e partire verso un paese che Dio stesso gli indicherà, pronuncia queste frasi di benedizione: «Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12, 2-3). Abramo, benedetto da Dio, diventa a sua volta benedizione per tutti coloro che lo benediranno. Chi riconosce in Abramo la benedizione di Dio riceve a sua volta la benedizione. E questo vale per ciascuno di noi: siamo benedetti da Dio affinché spandiamo la sua benedizione sugli altri, perché la facciamo circolare. Dio è amore, anzi, flusso di amore, movimento. Il suo amore non lo possiamo tenere ciascuno per sé, ma dobbiamo farlo girare: a questo siamo chiamati! Altrimenti, semplicemente, non siamo a immagine di Dio!

La benedizione che il celebrante pronuncia dice in sostanza che Dio è in noi, come Dio Padre, datore della vita, come Cristo salvatore, come Spirito amore. Dice che siamo dei salvati. Vado quindi a ringraziare perché sono un salvato, liberato dalle pastoie mortifere delle bramosie, delle paure, dei rancori, dei rimpianti. Ricordo quella volta, circa 15 anni fa, che siamo andati da don Gallo a San Benedetto al Porto, e lui si riferiva a tante persone come "sacchi pieni di noia che rasentano i muri", un'immagine sintetica che parla da sola! Siamo dei salvati, sono un salvato. Uno che ha ritrovato il gusto della vita, perché Dio è vita! Anche San Paolo lo sottolinea: "E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: «Abbà, Padre!»" (Rm 8, 15). Salvato dalla paura, come sottolinea spesso Gesù, tutte le volte che dice "Non temete", oppure "Pace a voi". Una benedizione iniziale, quindi, che sintetizza in poche parole i motivi più profondi per ringraziare, per celebrare l'Eucarestia.

La prima cosa che facciamo, dopo la benedizione, è riconoscersi peccatori. Lo sottolinea sempre don Lino, e ha ragione: possiamo affidarci al Signore solo se riconosciamo di averne bisogno. Lui prende su di sé le nostre debolezze se noi glie le mettiamo sulle spalle. E qui, direi, ci sono tre aspetti da sottolineare. Il primo è di essere sinceri nel riconoscere le nostre manchevolezze. Non posso presentarmi davanti al Signore pensando di essere una persona che fa sempre le cose giuste. Riconosco le mie povertà, le mie debolezze, le mie mancanze verso i fratelli presenti e quelli fuori. Riconosco che a volte qualcuno aveva bisogno di me e io non ho avuto voglia di darmi da fare, o di ascoltare. O che a volte ho tenuto il muso in casa, creando un'atmosfera pesante. Che ho creato tensioni nel mio ambiente. Che ho dato gomitate nel lavoro. Che non ho accolto una persona, o addirittura l'ho messa in un angolo. Che ho lasciato entrare in me sentimenti di cupidigia, di rivalsa, di pigrizia, di bramosia, di superiorità, di orgoglio....

Il secondo aspetto è che mettere le nostre debolezze sulle spalle del Signore vuol dire anche abbandonarle, lasciarle andare. Non solo proporsi di superarle: più che un forte impegno di volontà, occorre il desiderio sincero di farsi plasmare dal suo Spirito, e soprattutto una vera fiducia nel suo aiuto. E poi non soffermarcisi più di tanto. Sapeste quante volte, invece, io ho avuto per tutta la Messa la mente e il cuore occupati a chiedere perdono. No, no! Questo era in fondo un sentimento di orgoglio: dare troppa importanza alle mie mancanze che mi bruciavano, e sminuire invece la potenza dello Spirito. Questo era bloccarsi sul passato e sfuggire la presenza di Dio, "Io Sono", l'eterno presente! Gesù non vuole questo. Gesù non ha detto alla peccatrice che gli profuma i piedi: "rimugina sui tuoi peccati e roditi dal rimorso", ma "La tua fede ti ha salvata; và in pace!". Riconosco quindi le mie innumerevoli mancanze, ma ho dentro la gioia di sapermi perdonato e la fiducia nella sua presenza continua dentro di me.

E infine il perdono è come la benedizione di Dio: lo riceviamo affinché lo doniamo a nostra volta. Ci riconosciamo poveri e peccatori, chiediamo il perdono per essere persone rinnovate, e regaliamo il perdono a chi ci avesse fatto degli sgarbi, dei torti, dei soprusi... Perché perdonare? Dobbiamo farlo perché così ci chiede il Signore? Sì, anche. Ma lo facciamo soprattutto per liberarci dai pesi sul cuore e tornare a respirare l'amore di Dio, per tornare a vivere. A volte non è facile, ma il perdono è una decisione, che richiede magari un bel po' di tempo e che va affidata nelle mani del Signore perché ci aiuti ad accettare le ferite. Siamo quindi persone che hanno bisogno di perdono e che sanno di essere perdonate e che, accettando la fatica, desiderano fortemente saper perdonare e affidano questo desiderio al Signore. Persone consapevoli del fatto che l'amore di Dio li ha riportati tante volte a vivere e che ogni giorno torna a farli respirare a pieni polmoni, come persone singole ma anche come parte della famiglia umana.

Ed è questa consapevolezza che ci fa sgorgare dal cuore l'inno di lode, il Gloria. Come diceva don Prospero, dovremmo venire a Messa facendo l'esame di coscienza anche in positivo, cioè sulle tante cose belle vissute nella settimana e ricevute in genere dalla vita, sui tanti doni, sui rapporti luminosi che si sono creati attorno a noi. Siamo dei guariti, dei salvati, come dicevo prima; e facciamo come il paralitico guarito da Gesù, che "prese il lettuccio su cui era disteso e si avviò verso casa glorificando Dio" (Lc 5,25). È riconoscendo i doni di Dio che possiamo davvero rendere gloria al Signore e prepararci ad accogliere i doni grandissimi della sua parola e della sua presenza in corpo e sangue sotto le specie del pane e del vino.