Il rapporto con Dio tra fede e preghiera, nelle parabole del Vangelo:
Il Fariseo e il Pubblicano
«"In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che
avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato".». (Lc 18, 9-14) |
Questa parabola è stata collocata da Luca al capitolo 18, in
relazione al tema della preghiera, subito dopo quella del giudice iniquo e
della vedova insistente. Ma proprio in questa seconda parabola è in gioco
qualcosa di più della preghiera. Gesù tratta sì di due atteggiamenti diversi
nella preghiera, ma in realtà attraverso di essi allarga di molto l’orizzonte:
ci insegna che la preghiera rivela qualcosa che va oltre se stessa, riguarda il
nostro modo di vivere, la nostra relazione con Dio, con noi stessi e con il
prossimo.
Tutto ciò è già contenuto nella premessa al testo: “Egli
disse questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere
giusti e disprezzavano gli altri.”
Leggendo la parabola mi sento subito schierata dalla parte del
pubblicano, non certo da quella del fariseo....
Ma è poi così vero? È così vero che in qualche misura non
assomiglio anche un po' al fariseo?
Ecco che allora preparare questa riflessione per il campo è stato
per me lo spunto per una riflessione
personale .... provo a condividere qualcosa con voi.
*****
" Due uomini salirono
al tempio a
pregare
uno era fariseo e l'altro
pubblicano"
L'evangelista ci presenta gli antipodi della società di
Israele: il fariseo, la persona che,
come dice il nome, (fariseo significa separato), si separa dagli altri
attraverso la pratica religiosa, le osservanze, addirittura maniacali, l'uomo
pio, esemplare, e il pubblicano la
persona ritenuta la più impura, la più distante da Dio, un individuo che, anche
se volesse, non può più cambiare quel mestiere di disonesto e odiato esattore
delle tasse per conto dell'Impero Romano.
Sono
due uomini che compiono il cammino verso il tempio per incontrare Dio e
pregare. Ma immediatamente appare la diversità del modo di ciascuno di vivere
la propria umanità, di interpretarla e di rapportarsi a Dio.
La
preghiera del fariseo è formalmente ineccepibile. Inizia ringraziando Dio per
la sua vita così impeccabile.
Poi mette
in luce i suoi meriti: non solo osserva i comandamenti della legge, ma fa di
più di quanto la legge prescrive:
(Oltre al digiuno pubblico obbligatorio, il giorno dell’Espiazione a qualche digiuno pubblico occasionale, ai digiuni privati, esisteva anche un digiuno volontario regolato, per i giorni di lunedì e di giovedì. Questa pratica serviva a colmare eventuali omissioni e trasgressioni involontarie del fariseo, ed era anche intesa come espiazione per il popolo.)
(La
decima era richiesta al contadino su frumento, olio e vino, e sul primogenito
del bestiame. Nell’incertezza che il contadino abbia assolto a questo dovere,
il fariseo paga la decima sui prodotti in questione, o più in generale, su
tutti i prodotti della terra che compra al mercato, o addirittura paga la
decima su tutto quanto acquista.)
Anche qui
il fariseo non esagera, ma dice la
verità.
Il
pubblicano sta a “distanza". E'
il posto che compete a chi era considerato proprio escluso dal Signore. "Non osava alzare gli occhi al cielo":
atteggiamento che denota uno stato di vergogna, di confusione; "ma si batteva il petto",
segno di profondo dolore, di pentimento, però per una situazione dalla quale,
anche se volesse, non può più uscire. La sua preghiera è molto concisa; si consegna interamente alla misericordia
di Dio.
Io... Tu...
Il
fariseo inizia bene:" O Dio, ti ringrazio"... ma poi... non si interessa
più di Dio, la sua preghiera è incentrata sull'IO: «io sono, io digiuno, io pago». Ha dimenticato la parola più
importante del mondo: «Tu». Non ha
più bisogno di Dio; non a Dio parla, ma solo a se stesso: conosce il bene e il
male, e il male sono gli altri; conosce il giudizio di Dio, da lui non ha nulla
da ricevere, dagli altri nulla da imparare.
Il suo
Dio non fa nulla, registra solamente, verifica e controlla che tutto sia stato
fatto secondo "le regole".
Il
fariseo adora il proprio cuore, prega se stesso. E' così concentrato sull'"io"
da non lasciare spazio a Dio.... Il pubblicano invece, nel suo peccato, esprime
una preghiera autentica:"Abbi pietà
di me, peccatore", che lo apre a un TU che lo trasforma, lo rende
giusto...
Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa, il pubblicano la costruisce attorno a quello che Dio fa (tu hai pietà) ... Mette al centro della sua preghiera non se stesso ma la pietà di Dio, non l' "io" ma il "Tu".
E io?
Sono capace di mettere Dio al centro, nella preghiera e nella vita?
“Non sono come gli
altri”
Il
“fariseo” confida in se stesso, la sua sicurezza è posta nella propria condotta,
e si considera “giusto”.
Una
persona così non dubita e non può dubitare di ciò che pensa e di ciò che fa e
avverte solo disprezzo per chi non è come lui.
Osserva
le leggi, ma senza alcun impegno nei confronti del prossimo. Mentre ringrazia
Dio per il bene che immagina in sé, insulta gli altri per il male che immagina
in loro; diviene giudice spietato. Prende le distanze dagli altri, soprattutto
dal pubblicano. Pretende di conoscere la posizione di quest’ultimo davanti a
Dio, così come pretende di conoscere la propria. Crede di avere in tasca il
criterio con cui Dio giudica gli uomini.
Sì, il fariseo osserva tutti i
comandamenti, tranne uno, quello fondamentale!
«Vi
do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato
voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che
siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. »
(Giovanni 13,34)
Il suo
pensiero si distacca da quello di Dio che ama tutti indistintamente,
soprattutto i peccatori:
"Andate dunque e imparate che cosa
significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a
chiamare i giusti, ma i peccatori". (Mt. 9,13)
E io?
Certo,
leggendo la parabola, avverto subito tutta
l'arroganza che c'è in queste parole "O Dio, ti ringrazio che non sono
come gli altri uomini..."... ma, a volte, magari inconsapevolmente, capita
anche a me di fare dei paragoni, di
guardare una persona e avvertire un
sentimento di rifiuto; la mia mente può formulare giudizi negativi... Ma il
giudicare gli altri è una sorta di "non amore". Se non amo il mio prossimo posso arrivare anche a disprezzarlo. Allora...
attenta! ... ti può accadere di essere troppo impegnata nel giudicare il
tuo vicino, da non riuscire più a
sentirlo come un fratello, figlio di un unico Padre, che ama te e il diverso da
te, con lo stesso amore... incondizionato! o, peggio, disprezzando, può
succederti di rifiutare di accogliere la visita di Dio nell'altro!
"Io
vi dico: questi, a differenza dell’altro,
tornò a casa sua
giustificato"
Il
pubblicano, disprezzato, torna a casa sua "giustificato", cioè in
buoni rapporti con il Signore, perdonato. E non perché sia migliore del fariseo (pensarlo è ripetere lo stesso errore: credere
di meritarsi Dio), ma perché si apre,
come una porta che si schiude al sole, a un Dio più grande del suo peccato, a
un Dio che non si merita, ma si accoglie; si apre alla misericordia, a questa
straordinaria debolezza di Dio che è
anche la sua unica onnipotenza, capace di compiere miracoli in me! (padre E.
Ronchi)
" ... chiunque si
esalta sarà umiliato, chi
invece si umilia
sarà esaltato".
Il
fariseo si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, si aspetta la salvezza come premio che gli è dovuto per il bene fatto
e per avere seguito le norme rigidamente.
Il
pubblicano ha la consapevolezza di non
poter pretendere niente da Dio. Nulla ha da vantare e nulla da esigere. Può
solo sperare. Fa affidamento su Dio, sulla sua misericordia, non su se
stesso. Questa è l'umiltà di cui
parla la parabola.
Essere umili non significa sentirsi un verme spregevole! L’umile
non è un dimesso e tantomeno un depresso. Non va in giro a testa bassa.
Umiltà significa consapevolezza dei doni che Dio ci ha
fatto (e che non sarebbe giusto sminuire), come dei propri limiti, e gratitudine
per quanto si ha verso il Creatore che lo ha donato.
E’
diffuso il concetto che la persona umile deve essere modesta e senza pretese,
scartando caratteristiche come la decisione, il coraggio, l’entusiasmo. No, l’umiltà non è passività. Ma
soprattutto l’umiltà è il riconoscimento della nostra necessità di Dio, il riconoscimento sincero e umile, ma mai
immobilizzante, del nostro essere sue
creature. Anche se siamo in grado di fare molte cose, non possiamo "funzionare"
in modo efficace senza ammettere la nostra necessità di Lui.
Concludo
con una frase di padre Maggi che, secondo me, sintetizza efficacemente
l'insegnamento della parabola: "Il Signore non ci chiede di essere santi
(la santità intesa come osservanza di regole, di pratiche religiose)... Gesù ci chiede di essere la carezza
compassionevole del Padre per ogni creatura; non amare l’altro per i suoi
meriti, ma per i suoi bisogni. Questo è l'insegnamento della buona notizia
di Gesù."
Qualche spunto per la condivisione:
La preghiera è l'espressione della relazione con Dio. Luca vuole che il suo lettore (noi oggi!) si senta interpellato: "Qual è la tua relazione con Dio?", "Chi è Dio per te?"
Chi è al centro della relazione? (Nei vari aspetti della vita quotidiana, problemi, desideri... , qual è la parte che do a Dio? Quanto realmente confido in lui?).
In quale Dio credo? (Il giudice che
tiene il "registro" dei meriti e delle mancanze? O il Padre che non guarda i
meriti delle persone, ma le loro necessità, non le loro virtù, ma i loro bisogni.)
Riesco ad abbandonarmi, proprio così come sono, alla sua tenerezza?