Domenica 20 giugno 2021



Incontro di Comunità di fine anno 2020-2021 presso S.O.C. di Trasta

«..dì soltanto una parola...»


Che bello! Ci ritroviamo dopo molti mesi: era il 27 settembre l’ultima volta in cui ci siamo incontrati in un momento di tregua da questa pandemia che ha scombinato, stravolto le nostre vite. Allora pensavo che fossimo alla “fine del tunnel”, anche se in realtà c'erano già segnali che indicavano che stavamo entrando nel successivo, e quella luce che vedevo in fondo al tunnel erano invece i fari di un treno che l'avrebbero a breve scombussolata.

La pandemia è stata davvero la catastrofe più grande che forse i nostri occhi hanno mai visto (La seconda guerra mondiale ha prodotto circa 197.000 morti in quasi 5 anni con una media di 40000 morti l’anno, mentre il Covid ha prodotto sempre in Italia 127.000 morti in un anno e mezzo, con una media di oltre 95000 morti l’anno). Voglio sperare davvero che questo sia davvero un momento di catastrofe, cioè di “capovolgimento” per le nostre vite. Di fronte a tutto questo sento nascere il bisogno di essere salvato, di trovare senso alla vita, ai momenti di sofferenza e ai momenti di gioia.

Da un po' di mesi, direi dal novembre scorso, ho in testa questa frase a tutti ben nota: “Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola ed io sarò salvato”, la frase che pronunciamo prima di accostarci al pane eucaristico segno dell’amore di Dio che si offre, si spezza per noi. Sono parole che ripetiamo forse troppe volte senza pensare e che vorrei oggi entrassero in particolar modo nel nostro cuore, così come alcuni mesi or sono sono entrate nel mio cuore, perché in certi giorni non sapevo far altro che ripetere questa frase.
Mi è così venuto in mente, preparandomi a questa giornata, che c’è una parola capace di salvare, e non sto pensando in questo momento alla Parola del Vangelo, la bella notizia dell’infinito ed incondizionato amore di Dio per ciascuno di noi, ma ad un'altra parola che Dio ci dice, la stessa parola che per prima i nostri orecchi hanno ascoltato nel giorno del nostro battesimo, la parola che il prete ci ha detto, ovvero il nostro nome: Claudio, io ti battezzo… Claudio, Silvia Carlo, Ornella, Gianni, Paola, Cesare… in quel momento quel Dio innamorato capace di donare tutto sé stesso per me, per ciascuno di noi ci ha riconosciuto immergendoci nel suo amore. Ecco: il nome è la parola di salvezza!
Non ricordo quale giorno fosse, se il 2 o il 3 novembre scorso, perché i ricordi sono ovattati, circondati da una nebbia che mi dice anche come stessi male in quel momento; ero infatti entrato al Pronto Soccorso il 31 di ottobre e poi mi avevano trasferito in Terapia Sub-Intensiva;  a un certo punto si avvicina un giovane (che era giovane lo capivo dalla voce) che se oggi dovessi incontrare non riconoscerei per come era bardato nel suo camice, con casco ed occhialini e mi rivolge quella parola che sola ha la capacità di salvare: “È lei il papà di Riccardo?”. A fatica, col poco fiato che avevo, rispondo sì, e aggiunge “sono un amico di Riccardo; posso leggere la cartella?”, prende la cartella in fondo al mio letto e poi mi incoraggia dicendomi che va tutto bene e mi promette che tornerà. Lo invito a chiamare Riccardo per dirgli come sto; qualche giorno dopo ritorna e poi una terza. Ecco la mia salvezza! Essere riconosciuto, sapere che qualcuno mi voleva bene, sapeva chi ero! Sono stati giorni tremendi; anche il veder passare diverse persone, almeno 4 o 5, chiuse nei sacchi perché non ce l'avevano fatta.

Ma c'è sempre una parola che ci salva. Nel Vangelo di oggi [“la tempesta sedata”, Mc 4, 35-41, n.d.r.] c'è: “Passiamo all’altra riva!” Ecco la parola di salvezza che oggi Dio dice sulle nostre vite! Credo non ci sia migliore introduzione alla giornata di oggi: è proprio vero che la Parola di Dio ci viene incontro in ogni momento della nostra vita. È giunto il momento infatti, per me, per voi, di partire nuovamente per giungere all’altra riva! Ognuno di noi ricorda i momenti e le circostanze che ci hanno fatto ripartire, che ci hanno fatto dire “sì” alla proposta di donna e uomo nuovo che Il Signore ci fa (seconda lettura di oggi, 2 Cor 5,14-17 ), magari anche senza sapere come avverrà, come diceva Gesù nel Vangelo della settimana scorsa riguardo al seme che cresce anche senza che il contadino faccia più niente. Anche io, se ripercorro la mia storia, vedo il filo che mi ha portato ad essere qua, ma mi chiedo: “come ha fatto il Signore?”. Non lo so: il seme è cresciuto ma non so come. Ricordo vari piccoli sì, da quel primo sì quando mi avevano invitato a giocare a pallone con l'ACR e io, che mi ero rotto un ginocchio l'anno precedente cadendo su un vetro e non potevo più giocare nella Rivarolese, avevo accettato di giocare in parrocchia. Il Signore utilizza ogni cosa, anche i vetri di bottiglia buttati per terra, per far crescere quel seme.

Quando ci siamo visti, nel settembre dell'anno scorso, eravamo in attesa dell’enciclica firmata proprio il sabato seguente, 3 ottobre ad Assisi, di Francesco “Fratres Omnes, sulla fraternità e l’amicizia sociale”; è un documento che io vi avevo preannunciato come molto importante e che oggi, dopo averlo letto bene, riconfermo essere forse una pietra miliare nel suo pontificato, dove rileggendo la parabola del buon samaritano il papa ripropone molti punti della dottrina sociale della Chiesa; insomma il papa ci dice che esiste una parola che salverà il mondo, che ci aiuterà a superare la crisi della pandemia diventando donne e uomini migliori, più veri: questa parola non è “Vangelo”, non è neanche “Cristo”, ma è semplicemente “fraternità”, una parola che poi il papa declina anche laicamente come amicizia sociale. La parola che siamo chiamati a sussurrare, a gridare al mondo è fraternità, e per noi comunità: solo questo rinnovato modo di guardare all’altro può salvarci. Il Covid ce lo ha insegnato: mentre moltissime persone morivano da sole, abbiamo guardato a nuovi eroi, come i medici, gli infermieri, i volontari delle pubbliche assistenze, non solo perché hanno provato a guarirci, ma soprattutto perché ci erano vicini, ci sorridevano, ci salutavano, ci accarezzavano… nei primi giorni che ero in ospedale, sentivo anche persone che imprecavano contro i medici e gli infermieri, e questi lasciavano passare tutto sopra di loro, sorridevano, salutavano e accarezzavano alcune persone che stavano veramente male. Sempre e sempre salutavano, dagli OS, agli infermieri, ai medici. Quando mi prelevavano il sangue per fare le analisi, provocandomi un dolore forte, mi chiedevano scusa. Queste persone ai quali va il mio personale grazie sono stati i nostri angeli custodi, i nostri fratelli e le nostre sorelle. Ecco la parola di salvezza, ecco la parola che ha salvato la mia vita! Essere considerato, essere riconosciuto come persona.

C’è bisogno di dire questa parola nuova di salvezza, di annunciare il vangelo dell’amore di Dio nell’amore fraterno, nella condivisione dei beni spirituali e materiali, nella preghiera e nella celebrazione dell’eucaristia, nella festa dell’incontro, nell'accoglienza, i punti su cui abbiamo fondato questa esperienza che è la Comunità Una. Il mare è ancora tempestoso, ma siamo certi (e qui prendo le parole del teologo Dietrich Bonhoeffer, morto impiccato nel campo di concentramento di Flossenbürg) che “l’ora della tempesta e del naufragio è l'ora della inaudita prossimità di Dio, non della sua lontananza. Là dove tutte le altre sicurezze si infrangono e crollano e tutti i puntelli che reggevano la nostra esistenza sono rovinati uno dopo altro, là dove abbiamo dovuto imparare a rinunciare, proprio là si realizza questa prossimità di Dio, perché Dio sta per intervenire, vuol essere per noi sostegno e certezza e nelle tempeste della nostra vita Dio è vicino, non lontano, il nostro Dio è in croce”. 

Sono parole forti. Quando, dopo circa una settimana, cominciavo a respirare un po' meglio, ho iniziato a scrivere delle preghiere. Una di queste (una parte) è questa:

Sono caduto all'inferno ed insieme a tanta sofferenza, tanto dolore, tanta solitudine ho trovato angeli di ogni sesso pronti a un sorriso, una parola di conforto sopportando anche gli insulti di chi era accecato dalla sofferenza. Sono caduto all'inferno ma tante braccia si sono allungate per sorreggermi; sono caduto nell'inferno degli uomini e lì ho trovato Dio ad attendermi.

Ecco, vi dicevo “fraternità”, cioè comunità. In questa festa di fine anno che segna anche - lo speriamo tutti - un momento di ripartenza, voglio tornare a riflettere su questo. Da dove dobbiamo ripartire? Ogni momento della vita può trovare la sua scusa per restare fermi: “sono troppo vecchio e non ho le forze”, “sono troppo giovane e non ho esperienza”, “sono adulto e devo assumermi le mie responsabilità”. Attenzione, non importano i nostri anni, le nostre fatiche, i nostri limiti! Dobbiamo ripartire da quello che siamo e da quello che possiamo fare!Dio ci chiama alla fraternità, alla comunità, ed è da lì, dalle nostre origini e dal nostro essere comunità che dobbiamo ripartire, da un'idea di fraternità che dà un senso alla vita, che ci aiuta a vivere la nostra fede, che non è una fede solitaria ma vissuta in comunione con gli altri.

Ecco perché volevo rileggere insieme a voi  questo passo degli Atti al Capitolo 2, (At 2,42-47), per condividere poi con voi alcune cose da cui ripartire:

“Erano perseveranti nell'insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati”.

Continuo leggendo, dall'introduzione alla Carta Verde, una frase del cardinale Carlo Maria Martini: “Vorrei descrivere la vita concreta di una comunità cristiana che, proprio in forza della comunione coltiva l'amicizia fraterna, è attenta ai bisogni di tutti, suscita le vocazioni al servizio generoso del prossimo, si apre ai problemi del mondo, accoglie i più piccoli, i più poveri, gli ultimi, cerca le vie concrete della pace, favorisce gli itinerari della riconciliazione, esercita un influsso benefico sulla vita sociale e politica”. Una frase scritta una cinquantina di anni fa e forse più vicina alla sensibilità di oggi.

Erano perseveranti...

Abbiamo tante volte riflettuto e ripensato le parole di questo quadretto un po' idilliaco che Luca fa della prima comunità cristiana, reso poi più concreto dal racconto, poche pagine dopo, di cose che non vanno, come episodi di persone che non condividono, oppure che vendono favori di tipo spirituale, ecc. Vorrei che partissimo da quest'idea della perseveranza nell'amore, così come perseverantemente, ostinatamente e testardamente oggi più di 9 mesi fa vivo il mio amore per Silvia, per Riccardo e per Kelly. Prima di ripercorrere gli aspetti fondanti di una comunità cristiana, di come vivere la condivisione, di come vivere l'eucarestia, di come vivere la festa, ecc., chiedo a me stesso e a voi di ripartire da questa prima parola: “erano assidui, perseveranti…”. Il mondo ci propone, ci induce a scelte diverse, per cui diventa fondamentale la perseveranza, l’assiduità per mantenere lo sforzo di costruire la comunità al di là dell’età avanzata, dei limiti fisici e psicologici con i quali ci confrontiamo ogni giorno, del peccato, perché in tutte queste cose, come dice san Paolo, noi siamo più che vincitori (Rm 8,37)[1]. Il primo invito è quindi quello di vivere con perseveranza ciò in cui noi crediamo al di là di tutto; è la stessa storia del seme che abbiamo ascoltato in una delle due parabole della settimana scorsa: tutti ricordano l’aspetto passivo del contadino che nemmeno sa come il seme possa crescere e produrre frutto, ma vi è anche l'aspetto attivo, quello della nostra perseveranza nella semina abbondante a piene mani senza trattenere nulla, nel donare il Vangelo agli altri anche con la prospettiva di non vederli mai questi frutti: ci penserà poi il Signore a far crescere le spighe anche nei rovi o sulla strada. Una volta seminato il seme, dobbiamo aver la fiducia che quel seme cresce, e un giorno porterà frutti. Non ci deve interessare di quali frutti potranno nascere da quel nostro seminare, né di vederli!

…nell’insegnamento degli apostoli

Tutti forse intravediamo qua sotto un discorso di formazione, ma la nostra fede non è un insieme di verità. Sono estremamente grato a voi tutti perché oltre 25 anni fa avete provveduto a che io potessi studiare, formarmi, crescere in sapienza, forse, ma ciò non sarebbe servito a nulla se io ogni giorno non cercassi, con tutti i miei limiti, di vivere il Vangelo, che altro non è, come dico sempre, la bella notizia dell’infinito ed incondizionato amore di Dio. Essere assidui nell'insegnamento quindi significa soprattutto imparare a vivere questo amore e ad essere strumenti di questo amore, se vogliamo testimoniarlo nel mondo, ed è un amore di cui abbiamo una necessità vitale. Forse mi ripeto, ma nei giorni di estrema solitudine all’ospedale, solo ciò che mi diceva Silvia di voi, solo ciò che leggevo nei vari messaggi, l'aiuto concreto di chi ha portato a casa della mia famiglia il cibo quotidiano, solo i sorrisi di medici ed infermieri mi hanno consentito di andare avanti perché sono stati un forte richiamo a quell’amore di Dio che non si impara sui libri di teologia, ma nei cuori di chi ci sta accanto. Se noi siamo chiamati a portare qualcosa nel mondo, e lo si può fare anche alla nostra età, è quello di portare questo sorriso di Dio, questo amore di Dio, semplicemente, senza fare tanti discorsi.

…nella comunione

Il testo greco parla di Koinonia (unione fraterna): condivisione di beni materiali e spirituali, correzione fraterna, ma soprattutto presa a carico; la comunità è quel sentirsi fratelli e sorelle che ti spinge a fare tutto ciò che è in tuo potere, fino alla preghiera, per custodire tuo fratello e tua sorella. Questa è la risposta positiva a quella domanda retorica con cui Caino aveva risposto al Signore quando gli aveva chiesto: «Dov'è Abele, tuo fratello?». Caino aveva risposto: «Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9), come dire “che si arrangi”. E invece la risposta implicita di Dio era proprio quella: “sì, sei proprio il custode di tuo fratello!”. È il nuovo miracolo! Se il miracolo della Pentecoste è quello di rovesciare il problema della torre di Babele della incomunicabilità, nella Comunità si rovescia la domanda retorica di Caino: sì, sono proprio io il custode di mio fratello. Per superare l’incomunicabilità è inevitabile parlare di amore, e il miracolo della comunità ci fa superare la prima conseguenza del peccato “in origine” ovvero la violenza omicida contro i propri fratelli. Essere comunità oggi, ripeto, vuol dire dare una risposta affermativa a quella domanda di Caino che, retoricamente, invece ne cercava una negativa. Questo virus che ci isola e ci fa morire soli in un letto di ospedale si sconfigge sul piano sanitario, certamente, con le vaccinazioni, ma sul piano spirituale si sconfigge con la comunità, con la fraternità, come afferma papa Francesco.
Ecco che allora si potrebbe davvero pensare di ritornare alle origini con una condivisione piena, fatta di attenzione fraterna all’altro, sì, un'attenzione fraterna, perché io sono responsabile della fede dell'altro, anche se è vero che l'adesione alla fede è alla fine di tipo personale. Questo è ciò a cui siamo chiamati in questo momento di ripartenza, e ciascuno senza aspettare gli altri: comincio io non tanto perché ci credo, ma perché l’alternativa è tremenda, disumana: soffrire da soli, morire da soli. Ripartiamo di lì perché ce l’abbiamo dentro: quando nella mia famiglia eravamo malati in casa e quando poi io ero in ospedale, sapevo che voi vi siete presi cura di me e della mia famiglia e non importa che fossero Carlo e Ornella a fare la spesa per noi in quelle settimane, perché dietro di loro sapevamo che c’erano in tanti che ci hanno offerto la loro disponibilità ed ancora di più che hanno pregato per noi. Ripartiamo quindi da tutto il bello che c’è, da tutto quello che abbiamo saputo donarci e non dai nostri peccati. È possibile, mi chiedo, che noi ci fermiamo sempre e solo sul negativo? Siamo davvero molto più severi di Dio: se pure Dio lo scorda, perché dobbiamo ricordarlo noi? Dio si accontenta che un ladro dichiarato come Zaccheo salga su un albero per vedere passare Gesù e invece noi pretendiamo la perfezione da noi stessi e dagli altri. Credere in un Dio inflessibile è una bestemmia, e il Vangelo ce lo dice più e più volte che Dio è perdono, è comprensione. Pensiamo ad esempio alla parabola del padre misericordioso che sta ogni giorno ad aspettare il figlio che ha preteso la sua parte per andare a gozzovigliare e lo accoglie con gioia: Dio è così!

…nello spezzare il pane

Ripartiamo dall’eucaristia! Le chiese, dopo la chiusura dello scorso anno, oggi se possibile sono ancora più vuote; vedo un po’ di preoccupazione nei nostri preti e vescovi quasi che i numeri fossero fondamentali: “più siamo meglio è”! Se le chiese sono vuote riempiamole di contenuti e di amore, non di persone, altrimenti, se quel che conta è il numero di persone, abbiamo ridotto la pastorale ad un'indagine di mercato! Torniamo allo spezzare il pane, a quel gesto semplice casalingo, familiare che deve essere celebrare l’eucaristia, celebrare cioè le meraviglie di Dio sulla mia e nostra vita. Eliminiamo tutti gli orpelli che abbiamo aggiunto a quel gesto semplice di Gesù che prima di morire ha preso “del pane”, non “il pane” come liturgicamente diciamo. Lo ha spezzato, per dire che la sua vita era quella, un semplice pane spezzato, e che anche noi dovevamo fare lo stesso, ha versato del vino in un calice, per dire che la sua vita era del vino genuino donato per la salvezza di tutti. Prendete e mangiate, prendete e bevetene tutti: questa è l’eucaristia, un incontro personale e comunitario con il Signore, un incontro d’amore con Dio, un incontro d’amore come quando si torna a casa dopo una giornata faticosa e si ritrova il ristoro negli occhi della persona amata; se non è questo, allora per piacere stiamocene a casa!
Quel pane lo abbiamo chiuso nei tabernacoli pronto alla nostra adorazione, dimenticandoci del corpo di Cristo presente nei fratelli, i poveri cristi di questo mondo! La messa ed eventualmente l’adorazione, che pure è importante, altro non sono che l’invito ad essere un pane spezzato, un po’ di vino versato per gli altri! L'eucarestia è un incontro personale, un incontro comunitario, un incontro d'amore: se per alcune persone l'eucarestia non è tutto questo, che stiano pure a casa e  proveremo poi a recuperarle! Cerchiamo di andare a messa perché lì c'è l'incontro con Gesù, ma togliendoci dalla testa l'idea che Gesù sia solo in quel pane consacrato: Gesù ha detto di essere presente nei fratelli. E qui, scusate, torno alla mia esperienza, ma io in quei venti giorni in ospedale ho fatto eucarestia tutti i giorni, perché ogni giorno ho avuto persone per cui pregare, avevo lì Gesù Cristo che soffriva accanto a me. Quindi celebriamo l'eucarestia come modo per celebrare la nostra vita e le meraviglie dell'amore di Dio nella nostra vita e per cambiare la nostra vita, perché abbiamo un altro “corpo di Cristo”, che è il corpo dei poveri cristi che faticano, che soffrono.

…nelle preghiere

Sì, uso il plurale come lo usa San Luca, perché parliamo sia della preghiera personale che di quella comunitaria. Devo dire che per me è stato un dono grande, in quei lunghi giorni in ospedale in cui non avevo assolutamente niente da fare, quando all’inizio ero immerso nella sofferenza dentro di me ed intorno a me, ma soprattutto in un secondo tempo quando cominciavo a stare bene, aver ritrovato il tempo della preghiera, anche solo per passare qualche istante con il Dio che è amore e che mi ama in silenzio, pensando e ringraziando per quanti mi erano vicini. La preghiera è e rimane un’oasi d’amore in mezzo alla nostra quotidianità; una preghiera fatta non solo di formule perché in amore non esistono discorsi preconfezionati, ma che può anche usare le formule, in particolare quelle della liturgia delle Ore, per rimanere uniti al fiume della Chiesa, fonte sicura ed inesauribile dello Spirito. E poi pregavo cercando di riconoscere Gesù in chi era accanto a me e soffriva più di me, provando a sostenerli per come era possibile.
E poi la preghiera comunitaria, semplice e condivisa, per spezzare il pane della Parola insieme, per ritrovare in essa oltre all’incontro con il Signore risorto anche l’abbraccio dei fratelli. Ripartire è quindi anche ritornare alle fonti monastiche della nostra preghiera, è vivere nello spirito comunitario il nostro incontro con Gesù!

Prodigi e segni

Si parla, in Atti 2, anche di prodigi e segni che accadevano. Ripartiamo allora con gli occhi pronti ad individuare i segni dell’amore di Dio sulla nostra vita. Devo dire che proprio nei momenti più bui, più difficili, il Signore semina sulle nostre strade semi di luce, e lo ha fatto sulla mia strada. Non ho infatti altro da dire in generale, perché i segni sono diversi per ogni persona, ma posso solo condividere questa esperienza personale e di famiglia.
Ero all’ospedale e cominciavo a stare leggermente meglio ed ecco che un giorno Silvia mi dice che siamo stati convocati dal giudice che doveva decidere sulla possibilità di adottare Kelly; mancavano pochi giorni al suo compleanno e anche all’anniversario dell’arrivo di Riccardo ed ecco che si apriva di fronte a me la prospettiva di poter tornare a casa per quei giorni. Era un sogno poter abbracciare Kelly il giorno del suo compleanno! A un certo punto, in un giorno mi hanno diminuito l'ossigeno per tre volte, la mattina appena svegliato e poi a mezzogiorno, e poi la sera mi hanno tolto la maschera Venturi, quella che copre naso e bocca, e l'hanno sostituita con gli occhialini nasali. La dottoressa mi ha detto allora che, se fossi andato bene quella notte, sarei potuto tornare a casa, e io ho pensato: “allora ce la faccio ad arrivare per il compleanno di Kelly!”. Quella sera ho scritto un'altra preghiera, ricordando le parole di Martin Luther King:

“I have a dream” urlava al mondo Martin Luther King ed era il grande sogno della fraternità tra gli uomini, dei diritti condivisi e perciò veri per ogni donna e uomo di questa terra. Anch'io vorrei poter urlare “I have a dream”, sì anch'io ho un sogno, piccolo e forse anche un po' meschino, quello di poter stringere forte tra le mie braccia mia figlia che tra una settimana compirà i suoi 16 anni. Sono distrutto da questo inferno che ho dovuto attraversare, ma oggi voglio godermi la speranza di poter vedere realizzato questo sogno. Hanno diminuito l'ossigeno di cui sento ancora il bisogno, ma vedo la luce in fondo al tunnel. Non so se riuscirò a realizzare questo mio desiderio, ma ci spero, ci spero proprio tanto! Voglia il Signore regalarmi questa gioia piccola e anche un po' meschina! Ne ho bisogno...

L'ho conclusa il 20 novembre:

Ieri, 19 novembre, ho realizzato il mio sogno piccolo e forse anche un po' meschino, mi sono alzato da letto e sono andato incontro a Kelly, l'ho abbracciata, le ho sussurrato gli auguri per il suo compleanno..... il più bel regalo che potesse farmi!

Vi lascio qui anche un'altra preghiera che ho scritto, in realtà il seguito della prima che ho riportato, e che riguarda tutta questa mia esperienza:

In quei lunghi giorni in cui faticavo a respirare ho sentito vicino a me il respiro di Dio che è amore. L'ho sentito nelle telefonate con Silvia e i miei figli che mi hanno fatto sentire il loro sostegno nei momenti più difficili, l'ho letto nei messaggi di chi mi stava vicino con la preghiera o solo con quel pensiero laico di chi crede nell'amicizia. Non dispiacerà a tutti questi fratelli e sorelle se ho riversato una parte di quell'amore su coloro che hanno condiviso con me questo difficile cammino. Ho sentito il respiro di Dio accanto a me in quei volti, sarebbe meglio dire occhi perché si vedevano solo quelli, di tutti quei pazzi che hanno pensato alla nostra salute. Sì, perché solo la pazzia ti permette di andare oltre la fatica dei turni ed ancora di salutare e sorridere. Solo se sei pazzo puoi essere eroe per i laici e santo per Dio.
Capita poi che nel momento più buio della tua vita spunti una luce inaspettata quasi a ricordare che il buio non può vincere, che c'è sempre una luce a cui rivolgere il proprio sguardo. Ecco la luce che aspettavo! Una telefonata e poi un infinito scorrere di lacrime, lavarsi gli occhi per vedere ciò che è essenziale ma rimane invisibile: l'amore finalmente riconosciuto anche a livello legale; siamo una famiglia e mai nessuno potrà pensare a qualcosa di diverso dei sentimenti che ci legano.

Avevano ogni cosa in comune

Quest'espressione indica un modo nuovo di rapportarci con le cose e con le persone. Avere ogni cosa in comune è pensare e sognare un mondo nuovo, dove nessuno sia nel bisogno e tutto sia regolato dalla condivisione e dall'amore. È la speranza di un mondo nuovo, è qualcosa che propone, anche a livello politico, papa Francesco.

Letizia e semplicità di cuore

Infine l'ultima caratteristica: “in letizia e semplicità di cuore”. Ripartiamo ritornando alla gioia e alla festa: questo deve tornare ad essere lo stile dei nostri incontri, semplici perché ormai la vita ci ha già riservato tutte le complicazioni ed abbiamo bisogno di serenità, e gioiosi. La festa diventa il momento per sentirci davvero fratelli, al di là dei momenti in cui ci siamo vicini per superare delle difficoltà, il momento per riuscire a stare insieme.  Da solo io sono stato male, e lì ho imparato una cosa che forse prima non consideravo così tanto, cioè la bellezza dell'incontro con gli altri. Vivere la festa, vivere la gioia credo che sia una vocazione che magari io personalmente devo ancora scoprire nella mia vita ma che resta una chiamata del Signore per tutti noi.

Ripartiamo dalla Comunità, dai valori che viviamo, senza pensare di dover fare chissà cosa, di dover salvare il mondo. Non siamo qua per salvare il mondo ma per vivere la salvezza, e quindi proporla al mondo, un mondo in cui ci troviamo sempre più ad essere soli e pensare ai nostri interessi, ai nostri egoismi. Vivere lo spirito della Comunità, del condividere, dello stare insieme, della fraternità, è cambiare il mondo. Papa Francesco ha ragione nel dire che dalle crisi non si può uscire uguali: o se ne esce migliori o peggiori. Uscirne migliori vuol dire riprendere il cammino, senza nasconderci le nostre difficoltà. Dobbiamo però pensare che questa è la nostra salvezza.

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Note
  1. (Rm 8,35.37-39): Chi ci separerà dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, … né presente né avvenire, …. né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore".