Sono
anni strani, questi della pandemia, anni che ci hanno cambiato le
abitudini, i ritmi.
Dall'inizio
della pandemia, quante abitudini sono cambiate, e più volte. Divieti
di uscire se non per fare la spesa, negozi di abbigliamento o altro
chiusi, ragazzini a casa in Didattica A Distanza, messe abolite per
circa 3 mesi, che ci siamo dovuti inventare una nostra “liturgia
familiare domenicale” oppure seguire una messa in TV o su Youtube.
Poi
le cose migliorano da maggio 2020. Il Campo, prenotato vicino a Prea,
lo disdiciamo perché abbiamo troppi timori. E dopo l'estate...
ricominciamo! … Un incontro a settembre e si chiude di nuovo tutto!
Più nessuna attività in Comunità, e anche a livello familiare
tutto è sconvolto. Verso la fine del 2020 neanche ci si può
incontrare con i parenti per cena, perché c'è il coprifuoco dalle
10 di sera. Noi i compleanni li abbiamo festeggiati facendo due passi
al Porto Antico o prendendo un aperitivo all'aperto alla Marina di
Sestri.
Si
torna al blocco totale che si smorza poi lentamente. Si comincia
intanto con le vaccinazioni che ci danno la speranza di uscirne fuori
per l'estate.
Così,
anche come Comunità, a giugno pensiamo di poter ricominciare: una
grigliata del gruppo Fuoco, la giornata di Comunità il 20 giugno a
Trasta....
Tutto
finito? No, no, no!!!
Si
riesce, con le precauzioni necessarie, a fare due incontri in autunno
e a tenere la Festa di Natale di Comunità, ma intanto riprendono i
contagi di brutto e si cominciano a fare le terze dosi di vaccino.
Esce il super green-pass per accedere a certi luoghi e serve la
mascherina FFP2 per salire su mezzi pubblici... Ogni giorno abbiamo dovuto adattare le
nostre abitudini a nuove regole e nuovi timori. E ora, finalmente,
diverse restrizioni si allentano e si ha la speranza di poter riprendere una vita più libera.
È
questo il nostro ricominciare? No, certo che no. Nella vita, anche
senza pandemie, abbiamo tanti momenti in cui dobbiamo ricominciare.
Lasciamo perdere la vita giovanile, come quando si trova un lavoro o
ci si sposa e si deve cominciare una vita nuova. Allora pare normale.
Ma poi ci sono tanti eventi, anche nella vita matura, in cui cambiano
delle cose e si deve ricominciare. Ci troviamo a cambiare città e
lavoro, e si ricomincia. C'è una separazione, e si ricomincia una
vita diversa. Una persona perde il coniuge... a volte si risposa... e
si ricomincia...
Ma
non è nemmeno questo l'argomento di oggi. È proprio il vivere
che richiede di per sé l'infinita pazienza di ricominciare!
Questo
è l'incipit, la frase iniziale di una bellissima riflessione di
Ermes Ronchi che oggi vi propongo. Frase che in qualche modo riprende
la penultima frase della lettera incompiuta di frère Roger, lasciata
in sospeso il giorno prima della sua morte: “E,
in tutta la nostra vita, lo Spirito Santo ci permetterà di
riprendere il cammino e di andare, da un inizio ad un nuovo inizio,
verso un avvenire di pace”.
Andare da un inizio ad un nuovo inizio è nel DNA del cristiano, di
chi si lascia guidare dallo Spirito. Ogni giorno è un nuovo inizio!
Ma
ora lascio le mie frasi per proporvi quelle di Ermes Ronchi, che
magari a volte sintetizzerò o adatterò o integrerò con dei brevi pensieri miei. Ma sono
quelle. Bellissime!
La
riflessione è suddivisa in tre parti:
in che
direzione ricominciare;
ogni
giorno ritrovare sé stessi;
ogni
giorno abbracciare l'infinito.
L'infinita pazienza di ricominciare
Vivere è l’infinita
pazienza di ricominciare. E quando sbagli strada, ripartire da
capo. E là dove ti eri seduto, rialzarti.
Ma non per giorni che
siano fotocopia di altri giorni, bensì per giorni risorti,
questo
è l'aggettivo che usa Ronchi, passati in quel
crogiolo di amore, festa e dolore che è la vita, e restituiti
un po’ più puri e più leggeri.
Le parole più
caratteristiche della mia fede, dice
padre Ermes, cominciano tutte con un
prefisso: “ri”, due sole lettere per dire “da capo”,
“ancora”, “di nuovo”, “un’altra volta”. Queste sono le
parole rinascita, riconciliazione, risurrezione,
rimettere il debito, rinnovamento... redenzione.
È quella piccola
sillaba “ri” che dice: “non ti devi arrendere, c’è un
sogno di cui non ti è concesso stancarti”.
Anche
padre Ermes cita, come frère Roger, le parole di
san Gregorio di Nissa,
il quale suggerisce:
«Noi andiamo tutti di inizio in inizio, attraverso inizi
sempre nuovi». Perché con Dio c’è sempre un dopo,
lui non permette che ci arrendiamo, offre sempre una
seconda possibilità, e non una volta soltanto, ma ogni volta di
nuovo. È come se Dio perennemente ti dicesse: vieni, con me
vivrai solo inizi; non stileremo consuntivi, ma tracceremo
preventivi.
Ermes
Ronchi, nel decennio scorso era stato in Mongolia, la chiesa
cristiana più giovane del mondo, in una piccola comunità
missionaria di frontiera, e gli piaceva domandare ai cristiani di
quella chiesa nascente: «Che
cosa ti ha sedotto del cristianesimo?».
Una delle risposte più frequenti era: «Sono
diventato cristiano perché ho capito, ho sperimentato che la mia
vita può ricominciare. Ho sbagliato molto, ma la misericordia di Dio
mi ha fatto ripartire».
Avevano intuito che l’uomo può rinascere dall’alto.
Il
ricominciare ha però una direzione,
e non è quella del criceto che gira impazzito nella ruota. La indica
un’espressione di padre Giovanni Vannucci: «la
vita spirituale è crescere a più
libertà, a più
consapevolezza,
a più amore».
Crescere
a più libertà.
Liberi da che cosa? Soprattutto dalla paura.
365 volte ritorna nella Bibbia l’esortazione di Dio: non
temere, non avere paura.
365 volte, una al giorno, il buongiorno di Dio, a ogni risveglio: non
temere!
E
queste sono anche le tre semplici regole dell’umana pedagogia, che
Ronchi riprende dal testamento di un prete operaio di Milano, don
Cesare Sommariva:
non avere paura,
non fare paura,
liberare dalla paura.
E poi la libertà dalla
lettera, il
seguire le regole alla lettera. Ronchi dice che –
come hanno insegnato i maestri dello spirito – la lettera va
adoperata non per adorare la cenere, ma per custodire il fuoco.
E
io ci aggiungo poi: libertà dal fare le cose solo per “dovere”,
libertà da cosa pensano gli altri, libertà dal “si è sempre
fatto così”. Ma tutto questo si lega al punto successivo.
Più
libertà e più consapevolezza.
Tra i racconti su Gesù non scritti nei testi canonici, ma tramandati
da altre fonti, in margine ai racconti evangelici, ce n’è uno
inserito dopo il brano di Luca in cui i discepoli si fermano a
strappare le spighe e a mangiarle in giorno di sabato (cfr. Lc 6,l
5). Dice: «Il Maestro,
vedendo un uomo lavorare di sabato»
– che era il peccato più grave – «disse:
“O uomo, se sai perché lo fai, sei benedetto; se non lo sai, sei
colpevole”».
Si
può infatti trasgredire ed essere benedetti, se sai perché lo fai.
Come afferma Dietrich Bonhoeffer: «Qualche
volta per essere giusti bisogna commettere un peccato».
Questo
paragrafetto di Ronchi riporta al primato della coscienza, come a
dire: “faccio
quello che la mia coscienza mi dice che è giusto fare, quello che è
la cosa da fare ora”,
e la coscienza, per essere retta, deve essere consapevole. Quali sono
le forze che mi tirano o spingono? A quali voci do ascolto? Mi
comporto in un certo modo perché “si è sempre fatto così” o
perché così dicevano mia nonna e mia madre? Faccio questo per
interesse, avidità, desiderio di prestigio, per compiacere il
pensiero comune? O, all'opposto, lo faccio per essere diverso e
affermare la mia unicità, affermare che io sono uno dei pochi che ha
capito le cose? Quindi, in questo caso, credo di essere libero e
invece mi comporto secondo uno schema fisso, anche se me lo sono dato
da solo. Sono domande da farci spesso, per essere sempre più
consapevoli, e quindi liberi.
E
poi più amore.
Amore è la passione di unirsi, il desiderio di unione con l’oggetto
del tuo amore. Essere innamorati è l’unica prefigurazione del
regno,
dice Ronchi. In
sostanza, ci dice Ronchi, crescere a più amore, è uscire da sé
stessi, è andare verso l'altro. Con altre parole si potrebbe dire
che è ascoltare sempre meno la voce del mio ego, le mie idee, le mie
preferenze, i miei interessi, le mie ambizioni, le mie abitudini, per
ascoltare l'altro.
In
principio, dunque, i legami. Non c’è infinito quaggiù
al di fuori delle relazioni buone,
afferma Ronchi.
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L’infinita
pazienza di ricominciare è espressa nella Bibbia con due parole che
indicano una sola cosa, un unico movimento. Scorrendo i 73 libri di
cui è composta la Bibbia, ci si accorge che il dialogo tra cielo e
terra è tessuto con un filo molto fisico, un filo quasi corporeo. Le
grandi svolte della sacra scrittura sono indicati dall’espressione
«alzati e va’».
Alzati dalla posizione
seduta o arresa, dalla vita immobile, e mettiti in cammino.
È detto nei momenti decisivi: ad Abramo, al popolo in Egitto, ai
profeti che si erano accomodati o omologati, è detto a Giona, a Elia,
ai grandi peccatori, a Giuseppe per la fuga e per il ritorno
dall’Egitto; la risurrezione stessa di Gesù è detta con i verbi
dell’alzarsi e dello svegliarsi. In tutti i libri della Bibbia,
dalla Genesi all’Apocalisse, si trova questo filo conduttore:
«alzati e va’»,
ricomincia.
Per noi è scritto
questo «alzati e va’».
Da dove ci eravamo
fermati, Dio ci fa ripartire. Dio è un colpo di vento nelle vele
della nostra nave.
Io
la vela, Dio il vento, un vento che non sai da dove viene e dove va,
ma sai di sicuro che lui è «un vento che
non lascia dormire la polvere»,
come dice padre David Maria Turoldo in un suo inno.
In
opposizione alla vita seduta o sdraiata il vangelo offre le
beatitudini.
Pensiamo all’etimologia profonda del termine “beati”, che André
Chouraqui [scrittore
e filosofo francese e israeliano del secolo scorso]
traduce così: «In piedi
voi, i poveri, alzatevi! Dio cammina con voi. In
piedi, in
marcia voi non violenti! Dio vi dà la terra».
In piedi,
per una vita verticale.
Alzarsi
per avviare processi, per iniziare percorsi, per un primo passo che è
sempre possibile, in qualsiasi situazione ci si trovi, almeno un
passo.
Anzi il salmo 84 (il salmo del pellegrino) canta con un’espressione
stupenda: «Beato
l’uomo che ha sentieri nel cuore».
[Nella
versione che troviamo nelle lodi del mattino si legge «Beato
chi decide nel suo cuore il santo viaggio»].
Il
Vangelo apre sentieri nel cuore, fa andare.
Noi
siamo programmati così: l’uomo
per star bene deve andare.
L’infinita
pazienza di ricominciare ha anche un secondo punto di vista,
che Geremia illustra così: «Scesi nella bottega del vasaio, ed
ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che
stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli
riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva
giusto» (Ger 18,3-4).
Il vasaio – che è Dio – non butta mai via la creta, non ti
butta mai via, ti riprende in mano, ti rimodella con la forza
paziente delle mani, con il calore dei polpastrelli, con la visione
interiore di ciò che puoi diventare.
C’è un detto rabbinico che assicura: per noi lavorare con vasi
rotti, con pentole rotte, è una sciagura; per Dio, al contrario, è
un’opportunità. Noi siamo le anfore rotte di Dio, rimesse sul
tornio sempre di nuovo.
Oppure,
seguendo
un’altra bella metafora:
le
anfore che si rompono non possono più contenere l’acqua, è vero,
ma possono essere adoperate per fare da canale, attraverso cui
l’acqua scorre libera e arriva alla sete di altri.
Ricominciare:
anche
se siamo anfore rotte, possiamo diventare canali, servire ancora
all’acqua, seppur con un altro ruolo.
OGNI GIORNO RITROVARE SE STESSI
Siamo
come figli prodighi, dice Ronchi, che talvolta si sono smarriti,
lontano da casa. In
sostanza, per ricominciare nelle direzioni viste sopra, devo innanzi
tutto ritrovarmi.
Ritrovare
se stessi inizia da una domanda:
ma chi
sono io?
Sono
forse i miei pensieri?
Ma quante idee sbagliate ho coltivato e abbandonato … Sono forse
quelle idee sbagliate? No.
Sono
la mia volontà,
le mie decisioni?
Ma quanta fragilità,
quanti tentennamenti
…
Sono
i miei sentimenti?
Ma ho dentro una tavolozza complessa, che oscilla dai colori più
scuri ai più luminosi …
Tutte queste cose vanno a formare quello che
altri chiamano il nostro”ego”, la nostra falsa identità, quello
che noi crediamo di essere. Sono le cose con cui ci identifichiamo e
che ci separano dagli altri.
A
questo proposito voglio condividere un mio “lampo di illuminazione”, quella volta che, a preghiera di Comunità,
riconoscendo le mie debolezze, i miei limiti, le mie fissazioni,
ecc., mi ero sentito di dire al Signore: “Grazie del Carlo che mi
hai dato. È
con quel Carlo lì che io devo lavorare”. In quel momento
riconoscevo che il mio vero io era qualcosa di più profondo di quel
Carlo, era quello che osservava quel Carlo lì, e questo era un primo
passo per cominciare un cammino di maggiore consapevolezza.
Quindi
io non sono i miei pensieri,
non
sono la mia volontà,
non
sono i miei sentimenti.
C’è
qualcosa di più profondo
di idee, decisioni ed emozioni, e tutte le religioni l’hanno, da
sempre, chiamato “cuore”.
Altri
lo chiamerebbero il mio “io” profondo, la mia coscienza profonda.
Questo
“cuore” non è la sede dei sentimenti, ma il mio principio di
unità.
Il cuore,
uso le parole poetiche di Ronchi,
è la cattedrale del silenzio, là dove si sceglie la strada, dove si
accolgono o si respingono le emozioni che sorgono selvatiche. Il
luogo delle infinite rinascite, dove si ascolta, si ama, si gioisce,
si sceglie.
1.)
Alcuni
passi,
dice Ronchi, mi
hanno aiutato e mi aiutano a ritrovarmi, innanzitutto a partire dalle
domande del cuore.
Anche Dio ci educa alla vita, alla fede, attraverso domande, non
attraverso formule o risposte. La prima parola di Gesù nel vangelo
di Giovanni è una domanda: «Che
cosa cercate?»
(Gv 1,38). Qual è il vostro desiderio profondo?
Per
Ronchi la prima
domanda, la più vitale,
quella in cui ritrova il cuore, da cui inizia ogni incontro con la
sua anima, è questa: ma
io sono contento?
Mi
piace la mia vita?
Questa
prima domanda non
è di tipo morale o etico
(sono buono o cattivo? Credo poco o credo male?), ma
riguarda ciò che germoglia nel nostro spazio vitale: ma io sono
felice?
Aggiungo un mio commento. Dio
ci vuole felici, come dice Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi
ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra
gioia sia piena».
Se non lo siamo vuol dire che siamo prigionieri di qualcosa come
risentimenti, paure, pretese dagli altri o da noi stessi. Anch'io
personalmente avevo come “scoperto” che questa domanda è quella
di base per capire se cammino nel verso giusto. Se non sono contento
vuol dire che c'è qualcosa che non va. È
anche capitato che mi andassi a confessare cominciando proprio dal
“denunciare” di non essere contento. Potrebbe essere perché sono
amareggiato perché altre persone non agiscono come io penso che
dovrebbero: in sostanza io ho delle pretese sugli altri, non li
accolgo come sono. Oppure che mi pongo obiettivi contrastanti: da una
parte penso che dovrei fare certe cose utili per me o per gli altri e
dall'altra non ne ho voglia. In ogni caso è perché do troppo
ascolto al mio “ego” che mi fa troppi discorsi in testa. Chiusa
la parentesi, riprendo con Ronchi.
Questa domanda (ma io sono contento?) è come un punto di agopuntura
che, attivato, contribuisce a guarire l’intero corpo.
La
seconda
domanda è un approfondimento della prima:
quali
sono le cose che mi procurano gioia, ma gioia che duri?
Lo specifico metro della gioia non è l’intensità, una fiammata
che brucia tutto, ma la durata. Don Michele Do amava ripetere un suo
slogan: dura
ciò che vale e vale ciò che dura.
Il
primo esercizio per ritrovare il cuore, suggerisce Ronchi, è stilare
l’elenco – ed è breve – delle cose che mi danno gioia che
dura. Forse
mi accorgerò che la gioia viene dai volti.
Questo è il perno attorno al quale la vita ritrova sé stessa.
Ermes
Ronchi dice di averlo imparato leggendo la vita di Ignazio di Loyola,
cavaliere di Spagna ferito all’assedio di Pamplona. È ricoverato
in un piccolo ospedale per la convalescenza e si fa portare dei libri
da leggere, libri di due tipi: storie di cavalieri e storie di santi.
Lui scrive: «Mi
piacevano tutti e due i generi, ma c’era una differenza: uno di
questi mi procurava un piacere che durava più a lungo dell’altro,
ed erano le vite dei santi».
Questa esperienza di piacere più duraturo è il punto di partenza
della sua conversione.
Sant’Agostino
l’aveva teorizzato così:
nelle
scelte della vita vince la promessa di più gioia, perché «l’uomo
segue quella strada dove il suo cuore gli dice che troverà la
felicità».
Che
cosa fa muovere e avanzare la vita?
Un’attrazione
e una passione.
La vita è un uscire, un andare oltre … La
vita non avanza per divieti o per obblighi, ma per attrazione. Avanza
per una passione, e la passione nasce da una bellezza, almeno
intravista: la bellezza è profezia di gioia.
La
cosa più bella è comunque – sempre – l’atto d’amore. E la
cosa più bella della storia,
dice Ronchi,
è l’atto d’amore che è accaduto fuori dalle mura di
Gerusalemme, su quella collina, dove il Signore Gesù, povero, si
fece crocifiggere su un po’ di legno conficcato su un palmo di
terra.
2.)
Alle domande del cuore Ronchi aggiunge anche tre
verbi lo aiutano a ritrovarsi:
vedere,
fermarsi,
toccare.
Sono
tre dei dieci verbi con cui è descritto il buon samaritano che
incrocia l’uomo incappato nei briganti (Lc 10,30-35). Dieci verbi
che a Ronchi piace sentire e leggere come se fossero i nuovi dieci
comandamenti, il
nuovo decalogo, possibile a tutti,
a chi ha una vita religiosa e a chi non ce l’ha, perché
la vita sia abitata da prossimi e non da avversari.
I
dieci verbi sono: vide,
ebbe
compassione,
si fermò,
versò,
fasciò,
caricò,
portò,
fece
tutto il possibile,
pagò,
se
non basterà ti pagherò al mio ritorno.
E le prime tre azioni sono: vedere,
fermarsi,
toccare,
tre
azioni che servono anche a noi per ricominciare.
2a.)
Vedere.
Il samaritano vide ed ebbe compassione. Vide le ferite, e si lasciò
ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto e Dio
naviga in un fiume di lacrime invisibili a chi ha perduto se stesso,
il cuore.
Per
vedere è necessario aprire gli occhi.
Come fa il Signore con Agar nel deserto con il bambino Ismaele che le
muore; «Dio
le aprì gli occhi»
ed ella vide un pozzo d’acqua dove prima c’era solo sabbia (cfr.
Gen 21,19), un pozzo che era già lì, ma che lei non riusciva a
vedere.
In
ebraico occhio si dice ‘ayin,
termine che significa anche sorgente. Se
apri gli occhi si aprono sorgenti, negli altri e in te.
Uno sguardo giudicante paralizza e separa, mentre uno
sguardo non giudicante, ma includente, disseppellisce sorgenti negli
altri, apre il futuro.
Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona e scoprire, dietro
un centimetro quadrato di iride, l’urgenza di una promessa, una
sete, un'energia trattenuta, un futuro. Il suo era uno sguardo
liberante.
Una
frase illuminante di Matteo dice così: «la lampada del corpo è
l’occhio» (Mt 6,22). Noi
abbiamo occhi di lucerna, che non solo vedono, ma come lampada
gettano luce, irradiano luce, avvolgono di luce le cose che guardano.
Troppo
facile chiudere gli occhi, adducendo a pretesto il grigiore della
città e dei volti. Io so una cosa, dice Ronchi riprendendo una frase
di Angelo Casati: ogni volta che mi chino a sorprendere germogli,
ogni volta che mi succede di navigare per occhi di persone che amo,
ogni volta che pianto un seme e spio il gonfiarsi della terra, esco
con gli occhi che sorridono (Angelo Casati,
sacerdote, saggista e poeta milanese, che ha compiuto 90 anni nel
maggio 2021).
Ermanno
Olmi dice che per
vedere bene un prato bisogna inginocchiarsi.
Non si possono amare i boschi se li vedi solo come una fabbrica di
ossigeno. L’amore nasce da un rapporto diretto, e c’è un solo
modo per conoscere il bosco o il prato: inginocchiarsi e guardarlo da
vicino.
Forse
potremmo continuare all’infinito. C’è un solo modo per conoscere
il tuo uomo, la tua donna, Dio, una città, un prato, una pieve:
inginocchiarsi e guardarla da vicino. Guardare
gli altri a millimetro di viso, di occhi, di voce, e non da lontano.
Guardare
come bambini e ascoltare come innamorati.
Se vedessimo la terra, l’umanità, la nostra casa, ogni creatura
con gli occhi che accarezzano in silenzio e illuminano l’altro,
senza desiderio e senza violenza, quante cose cambierebbero! Le
parole nascerebbero lievi e non di pietra.
Pensiamo
al modo con cui Gesù guardava: il
primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato di una persona, il
suo primo sguardo si posa sempre sulla sua povertà e sul suo
bisogno.
Abbandonare lo sguardo giudicante che classifica in buoni e cattivi,
spezzare lo schema “buoni e cattivi, innocenti e colpevoli” e
acquisire
lo sguardo includente di Gesù, che non si posa mai sul merito
dell’uomo, ma sul bisogno. E lo illumina.
È
lo sguardo del padrone del campo nella parabola del buon grano e
della zizzania, che mette in scena un conflitto di sguardi (cfr. Mt
13,24-30). Lo
sguardo dei servi si fissa sul male, sulla zizzania,
vede le erbacce. Lo
sguardo del padrone vede il buon grano, illumina la spiga incamminata
verso la pienezza.
Non strappate via – dice – l’erba cattiva, perché rischiate di
strapparmi le spighe. E per me una
spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo.
La
luce conta più del buio, il bene vale più del male.
Acquisire questo sguardo, che vede anche le ferite e se ne lascia
ferire. E insieme lo
sguardo che salva lo stupore:
cioè, usando le parole di Ronchi, avere
occhi
di lucerna che illuminano il bene, il positivo, che vedono l’estate
profumata di frutti e l’autunno festoso di colori, che intuisce il
domani nell’oggi faticoso, che si posa sui talenti.
Nessuno solo con le sue ferite, ben sapendo che nessuno coincide con
esse.
2b.)
Fermarsi.
Un grande scalatore racconta che durante una salita sull’Himalaya,
a un certo punto lo sherpa nepalese che lo accompagnava depone il
carico, si ferma e si siede. Allo scalatore che gli chiede il perché
risponde: «Mi
siedo per aspettare la mia anima, perché è rimasta indietro».
La nostra vita è senza tregua, una corsa, una scalata senza respiro,
al punto che spesso l’anima rimane indietro. Che ti giova
guadagnare un’alta montagna o il mondo intero, se poi perdi
l’anima? Possiamo chiederci anche noi: dove corri? Non sai che il
mondo, non sai che il cielo è in te?
lo
faccio molto per questo mondo,
dice Ronchi,
quando sospendo la mia corsa per dire “grazie”.
Fermarsi
addosso alla vita, vita che è fatta di persone, perché la vita non
ha un senso prestabilito, né senso vietato né senso obbligatorio.
E se non ha senso, vuol dire che va in tutti i sensi e che trabocca
di senso e tutto inonda.
La
vita fa male quando le si vuole imporre un senso,
piegarla in una direzione o in un’altra. Se
non ha senso, significa che essa è il senso.
Come dice Dostoevskij: «ama
la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso».
O
come dice san Giovanni nel prologo del suo vangelo: «in lui era la
vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4). È una cosa
straordinaria: la
vita è la luce degli uomini.
Vuoi
luce? Fermati e guarda la vita.
Bisogna
essere come una nave che non è in ansia per la rotta da seguire,
perché sappiamo di avere su di noi il vento di Dio. La
vita si rivela solo a coloro i cui sensi sono vigilanti
[i
sensi, non il pensiero, non la mente che rimugina in continuazione!]
e che si spingono in avanti, come felini tesi in agguato verso il
minimo segnale. Tutto sulla terra ci interpella, ci chiama, ma così
lievemente che passiamo mille volte senza vedere alcunché. Noi
camminiamo su gioielli senza notarli.
2c.)
Vedere, fermarsi e poi Toccare.
Per chiarire cosa ci vuole dire, Ronchi si serve di due episodi
narrati nel vangelo.
All’inizio
del racconto di Marco, Gesù incontra un lebbroso, che gli grida di
aiutarlo. Davanti al lebbroso, al contagioso, all’impuro, al
rifiutato, un cadavere che cammina, che non si deve toccare, cacciato
fuori, uno scarto, e che chiede da lontano di essere guarito, Gesù
prova compassione (Mc 1,41). Il testo greco usa un verbo
(splanchnízo)
la cui traduzione letterale potrebbe essere: sentì
subito un crampo nel ventre,
un morso nelle viscere, uno spasmo, una ribellione che dice: no, non
voglio, non deve essere punito. E allora Gesù che fa? Si ferma. E
poi?
Lo
tocca. Tocca
l’intoccabile.
Ogni volta che Gesù si commuove, tocca.
È parola dura per noi, per me. Ci mette alla prova. Non è spontaneo
toccare il contagioso, l’infetto. Lasci cadere la moneta dall’alto
nella mano del povero, attento a non toccarlo, perché non è tanto
pulito, fai un gesto senza coinvolgimento di viscere.
Trovare
l’anima, ritrovare se stessi è un fatto di grembo e di tatto.
Di
grembo e di mani.
Il tatto è tra i cinque sensi quello che apre il Cantico e lo
riempie, è un modo di amare. Gesù
tocca il lebbroso, e toccando ama, e amando lo guarisce.
La
seconda scena è ambientata a Naim (cfr. Lc 7,11- 17). Gesù incrocia
il corteo funebre che porta alla tomba l’unico figlio di una madre
vedova che piange, piange come può fare solo chi è folgorato dal
dolore più atroce. Gesù la vede, la vede piangere e subito prova
compassione, sente questo crampo nel ventre, un groppo allo stomaco
(esplanchnísthe).
La compassione è quando il dolore dell’altro fa piaga nel cuore.
Gesù davanti al dolore ha questa reazione: prima di tutto prova
dolore per il dolore dell’uomo. E poi si ferma, non tira
via, non passa oltre magari dicendo, come capita a noi: non
disturbiamola nel suo dolore. Lui vede, si commuove, si
ferma, e la sua prima parola è: «Non piangere!».
Che
bello il nostro Dio! L’abbiamo
scelto per questo! Per usare un ossimoro: l’abbiamo
scelto per la sua umanità che gli causa dolore,
un morso, un’unghiata, un graffio nel cuore davanti a quella madre.
E
poi tocca. Viola la legge, fa ciò che non si può: prende il ragazzo
morto, lo rialza e lo dà a sua madre, in un atto di nascita. Gesù
partorisce. Perché la
misericordia è tutto ciò che è essenziale alla vita,
la
compassione è ciò che ci fa ritrovare la nostra anima rimasta
indietro.
Se
c’è una malattia che Gesù teme più di tutte, che combatte più
di tutte, è la durezza di cuore,
la sklerokardía,
l’impietrimento del cuore, l’incapacità
di sentire il morso delle viscere.
Il rischio più grande è quello di diventare analfabeti del cuore,
di essere burocrati delle regole, funzionari delle norme e analfabeti
del cuore di Dio e del cuore dell’uomo.
Le
prime tre azioni per ritrovare se stessi sono, dunque, vedere
con compassione,
fermarsi
e toccare.
Perché
ritrovare
se stessi è ritrovare il proprio cuore e ritrovare gli altri.
Per
noi esistere è coesistere.
La
velocità produce cecità, e la cecità produce durezza di cuore.
La
cecità e la velocità creano gli invisibili, i tanti invisibili
delle nostre città, quelli a cui passiamo accanto e che neppure
vediamo.
Lo
sguardo spento produce buio, e poi innesca un’operazione ancor più
devastante: rischia
di trasformare gli invisibili in colpevoli, di trasformare le vittime
come ad esempio i profughi, i migranti, i poveri con il loro assedio
che non si placa in colpevoli e in causa di problemi.
Così
accade se non vedi, non ti fermi, non tocchi.
Le
persone sono declassate a problema, anziché diventare fessure di
infinito.
OGNI GIORNO ABBRACCIARE L’INFINITO
Per Ermes Ronchi il ricominciare di ogni
giorno, a più libertà, a più consapevolezza, a più amore,
richiede anche un altro “ingrediente”, quello di abbracciare, o
farsi abbracciare, dall'infinito. Vediamo quindi cosa ci vuole dire.
Ronchi
adotta un suo piccolo metodo per lasciarsi abbracciare dall’infinito:
di tanto in
tanto, fare la creatura.
Noi, plasmati dal mito dell’homo faber – dell’uomo che deve
fare, produrre, creare, inventare, lavorare –, tornare a essere non
il vasaio,
ma
il vaso, l’argilla:
creatura fra le creature. Invece di essere sempre autori e vittime di
una vita di scopi da raggiungere, tornare come bambini.
Una
bella metafora di Martin Heidegger dice che l’uomo
è come un’isola.
La mia vita è come un’isola, io la percorro tutta, la spiaggia, i
promontori, le insenature, e quando ho terminato il periplo
dell’isola e torno al punto di partenza, mi accorgo di una cosa:
che là
dove finisce l’isola comincia l’oceano.
Che il
confine dell’isola è l’inizio dell’infinito,
che il
confine dell’uomo è Dio.
Che tu
confini con Dio, tu isola nell’oceano.
Qui
Ermes Ronchi inserisce un pensiero di tipo scientifico che lo ha
colpito. Le cellule del nostro corpo sono basate sul carbonio, però
il carbonio non era presente all'inizio dell'universo, ma è il
risultato di dieci miliardi di anni di reazioni nucleari avvenute
nelle stelle. Ronchi ne è affascinato: “Un
atomo di carbonio in una cellula del cervello umano ha un pedigree
che risale indietro a prima della nascita del sistema solare, quattro
miliardi e cinquecento milioni di anni fa.”
e conclude così: “Leggiamo
in Genesi che Dio plasmò l’uomo non con la creta, ma con polvere
del suolo, con polvere cosmica!
Siamo
un impasto di polvere cosmica e di fiato divino”.
E quindi prosegue: “Quando
mi sento creatura in questo modo, quando sento di condividere con
tutte le altre creature viventi un patrimonio genetico che risale
agli organismi primordiali dei mari antichi, allora capisco che
batteri, pini, mirtilli, castagni, cavalli, le balene grigie, tutti
nella grande comunità della vita siamo parenti.”
“Ciò
fa degli esseri umani i cantori dell’universo e i custodi
dell’universo: capaci di cantare le lodi e di rendere grazie a nome
dell’intera comunità cosmica di cui facciamo parte
(usa parole di Abraham loshua Heschel, grande
studioso del giudaismo del '900, filosofo e teologo).
Siamo
tutti interconnessi nell’unica storia dell’universo e siamo tutti
fatti di polvere di stelle e di respiro divino. In noi l’infinito
ci abbraccia.
Dobbiamo
prenderne consapevolezza per abbracciare a nostra volta l’infinito.
Siamo
creature:
la
stessa parola “creatura”
conserva nella sua etimologia una sfumatura di futuro,
di progetto, in analogia a termini come nascituro,
morituro,
venturo.
Siamo
coloro che non hanno finito di essere creati, che sono ancora nelle
mani di Dio, che non hanno mai finito di nascere, che vengono dal
futuro ancor più che dal passato.
Con l’eterno che si insinua nell’istante presente e l’istante
che fiorisce nell’eterno.
Sempre Ronchi, nel libro “Il futuro ha un
cuore di tenda”, dice che la vita procede non spinta da quello che
si è ora o che si è stati, ma dal sogno di quello che saremo: un seme germoglia e cresce
non spinto da quello che era all'inizio ma dal sogno della pianta,
dei fiori e dei frutti che ne verranno fuori. Il grano che cresce
“sogna” la spiga che un giorno arriverà a maturazione. Così
anche noi: siamo attirati dal futuro e non spinti dal passato!
Stiamo
sempre nascendo, siamo sempre nella preistoria di noi stessi. L’uomo
non è tanto un essere mortale, ma ancor più è un essere “natale”.
Dobbiamo essere indulgenti con il nostro lungo nascimento che è la
vita. Maria Zambrano (una
filosofa spagnola del 1900, dalla vita molto movimentata, vissuta
nella Spagna di Franco, in Sud America e nel resto d'Europa)
afferma: «Noi
nasciamo a metà. Tutta la vita ci serve a nascere del tutto».
Proseguo con le parole di Ronchi nel penultimo paragrafo di questa riflessione.
Un
secondo
passo per abbracciare l’infinito
– perché c’è un altro infinito in me -, per ritrovare quel
respiro, quel pezzetto di Dio che è in me, è
la
preghiera.
Penso alle sei anfore di pietra, collocate all’ingresso della casa
degli sposi a Cana di Galilea. Molte volte mi sento così, anfora
vuota, vaso che ha perduto la sua acqua. La
nostra vita si disidrata così facilmente.
Come
fare per nutrirla di nuovo?
Quando
mi sento così, mi metto a pregare seguendo un’immagine: vedo me
stesso come una delle sei anfore di Cana, come
un vaso che ha perduto la sua acqua,
ma
che ora una mano mette sotto il getto della fontana, della sorgente
che è Cristo.
Una
sorgente che non verrà mai meno, che è sempre disponibile, che non
si esaurisce, che mi riempie. E dandomi se stesso, Dio mi da tutto:
pace, luce, gioia, coraggio, sogni.
Ronchi dice riguardo alla preghiera:
“Amo le preghiere brevi, non quelle lunghe.
Mi sono sempre sentito in colpa davanti alle preghiere lunghe, perché
mi pesano. Questo senso di colpa mi è durato fino a che ho letto una
massima di un padre del deserto, Evagrio Pontico: «non
compiacerti del numero dei salmi che dici. Vale di più una sola
parola nell’intimità che mille stando lontano».
Non
la quantità delle parole, del tempo nella preghiera, ma l’intimità
anche di un solo istante.
Allora guardo la mia vita, la mia giornata, e mi accorgo che ogni
giorno Dio stesso si incarica di seminare piccoli semi di preghiera
in me: un pensiero buono, un brivido di gioia, uno sguardo a una
persona, a un crocifisso sulla parete, una gentilezza inattesa da uno
sconosciuto, la bellezza del creato o l’eco di un canto, il
silenzio di una notte d’inverno
… Tutte piccolissime cose, a cui basta poco per rispondere: un
battito del cuore, un brivido, un pensiero, una carezza nell’intimità
con Dio.
L’esortazione
paolina «pregate
ininterrottamente»
(1Ts 5,17) può
essere messa in pratica non nell’estensione, ma solo
nell’intensità.
Se
rispondi, si aprono brecce nel cielo, finestre di luce, che forse si
richiudono presto, ma intanto hai respirato mistero.
Amo
le preghiere brevi, le formule lampeggianti come lucciole nella
notte, come un morso di luce sul cuore. Preghiere
leggere come fili di seta che lancio oltre il muro; non possenti come
una fune su cui arrampicarmi, ma leggere e così numerose da creare
come un tappeto su cui sento posarsi lieve il piede di Dio.”
E infine l'ultima parte della riflessione di
Ronchi.
Per
abbracciare l’infinito – oltre al sentirsi creatura e al metodo
delle preghiere brevi come lucciole nella notte – c’è poi la
strada della poesia, la via della bellezza.
Scrive con parole magiche padre David Maria Turoldo: «un solo verso,
/ fessura sull’infinito come / il costato aperto di Cristo -, anche
/ un solo verso può fare / “più grande l’universo”».
Anche altri maestri di spiritualità indicano
la via della bellezza come strada per entrare in contatto con
l'infinito, con lo Spirito della vita, in definitiva con Dio. Eckhart
Tolle dice che lampi di intuizione li possiamo avere, ad esempio,
quando rimaniamo incantati davanti a un cielo stellato, oppure ad
ascoltare il rumore di un torrente, o il canto di un uccello, ma
anche un fiore o un bambino. Occorre però avere la mente in quiete,
per far durare questo lampo di intuizione. La mente che ragiona
non può percepire la bellezza! Solo la nostra consapevolezza, il
nostro io più profondo, può farlo e percepire l'infinito.
Normalmente, dopo un tempo brevissimo di stupore, la mente comincia a
dare nomi, a porre etichette... e il momento di stupore resta solo un
ricordo. Lasciamolo invece durare più che possiamo, questo momento
di stupore, facendo tacere la mente, per acquisire maggiore
profondità in noi!
Come contrappunto per le risonanze del cuore, Ronchi riporta la
seguente lirica giovanile di Alda Merini, forse la sua prima, scritta
probabilmente a 17 anni, esprime bene l’anelito ad abbracciare
l’infinito:
Bisogna essere santi per
essere anche poeti:
dal grembo caldo d’ogni
nostro gesto,
d’ogni nostra parola che
sia sobria,
procederà la lirica
perfetta
in modo necessario ed
istintivo.
Noi ci perdiamo, a volte,
ed affanniamo per i vicoli
ciechi del cervello,
sbriciolati in miriadi di
esseri
senza vita durevole e
completa;
noi ci perdiamo, a volte,
nel peccato della
disconoscenza di noi stessi.
Ma con un gesto calmo della
mano,
con un guardar “volutamente”
buono,
noi ci possiamo sempre
ricondurre
sulla strada maestra che
lasciammo,
e nulla è più fecondo e
più stupendo
di questo tempo di
conciliazione.
Buon cammino di nuovo inizio quotidiano a tutti!
(Nota:
il testo completo originale, con presentazione, introduzione e dialogo
finale col pubblico, lo si può trovare a questo link:
https://uomo-fra-il-nulla-e-l-infinito.webnode.it/news/infinita-pazienza-di-ricominciare/ )
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