Domenica 6 febbraio 2022
Prima domenica di Quaresima
Presentazione della riflessione di Ermes Ronchi
(da parte di Carlo Scagliola)

«L'infinita pazienza di ricominciare»



Sono anni strani, questi della pandemia, anni che ci hanno cambiato le abitudini, i ritmi.

Dall'inizio della pandemia, quante abitudini sono cambiate, e più volte. Divieti di uscire se non per fare la spesa, negozi di abbigliamento o altro chiusi, ragazzini a casa in Didattica A Distanza, messe abolite per circa 3 mesi, che ci siamo dovuti inventare una nostra “liturgia familiare domenicale” oppure seguire una messa in TV o su Youtube.

Poi le cose migliorano da maggio 2020. Il Campo, prenotato vicino a Prea, lo disdiciamo perché abbiamo troppi timori. E dopo l'estate... ricominciamo! … Un incontro a settembre e si chiude di nuovo tutto! Più nessuna attività in Comunità, e anche a livello familiare tutto è sconvolto. Verso la fine del 2020 neanche ci si può incontrare con i parenti per cena, perché c'è il coprifuoco dalle 10 di sera. Noi i compleanni li abbiamo festeggiati facendo due passi al Porto Antico o prendendo un aperitivo all'aperto alla Marina di Sestri.

Si torna al blocco totale che si smorza poi lentamente. Si comincia intanto con le vaccinazioni che ci danno la speranza di uscirne fuori per l'estate.

Così, anche come Comunità, a giugno pensiamo di poter ricominciare: una grigliata del gruppo Fuoco, la giornata di Comunità il 20 giugno a Trasta....

Tutto finito? No, no, no!!!

Si riesce, con le precauzioni necessarie, a fare due incontri in autunno e a tenere la Festa di Natale di Comunità, ma intanto riprendono i contagi di brutto e si cominciano a fare le terze dosi di vaccino. Esce il super green-pass per accedere a certi luoghi e serve la mascherina FFP2 per salire su mezzi pubblici... Ogni giorno abbiamo dovuto adattare le nostre abitudini a nuove regole e nuovi timori. E ora, finalmente, diverse restrizioni si allentano e si ha la speranza di poter riprendere una vita più libera.

È questo il nostro ricominciare? No, certo che no. Nella vita, anche senza pandemie, abbiamo tanti momenti in cui dobbiamo ricominciare. Lasciamo perdere la vita giovanile, come quando si trova un lavoro o ci si sposa e si deve cominciare una vita nuova. Allora pare normale. Ma poi ci sono tanti eventi, anche nella vita matura, in cui cambiano delle cose e si deve ricominciare. Ci troviamo a cambiare città e lavoro, e si ricomincia. C'è una separazione, e si ricomincia una vita diversa. Una persona perde il coniuge... a volte si risposa... e si ricomincia...

Ma non è nemmeno questo l'argomento di oggi. È proprio il vivere che richiede di per sé l'infinita pazienza di ricominciare!

Questo è l'incipit, la frase iniziale di una bellissima riflessione di Ermes Ronchi che oggi vi propongo. Frase che in qualche modo riprende la penultima frase della lettera incompiuta di frère Roger, lasciata in sospeso il giorno prima della sua morte: “E, in tutta la nostra vita, lo Spirito Santo ci permetterà di riprendere il cammino e di andare, da un inizio ad un nuovo inizio, verso un avvenire di pace”. Andare da un inizio ad un nuovo inizio è nel DNA del cristiano, di chi si lascia guidare dallo Spirito. Ogni giorno è un nuovo inizio!


Ma ora lascio le mie frasi per proporvi quelle di Ermes Ronchi, che magari a volte sintetizzerò o adatterò o integrerò con dei brevi pensieri miei. Ma sono quelle. Bellissime!


La riflessione è suddivisa in tre parti:

  1. in che direzione ricominciare;

  2. ogni giorno ritrovare sé stessi;

  3. ogni giorno abbracciare l'infinito.


L'infinita pazienza di ricominciare

Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E quando sbagli strada, ripartire da capo. E là dove ti eri seduto, rialzarti.

Ma non per giorni che siano fotocopia di altri giorni, bensì per giorni risorti, questo è l'aggettivo che usa Ronchi, passati in quel crogiolo di amore, festa e dolore che è la vita, e restituiti un po’ più puri e più leggeri.

Le parole più caratteristiche della mia fede, dice padre Ermes, cominciano tutte con un prefisso: “ri”, due sole lettere per dire “da capo”, “ancora”, “di nuovo”, “un’altra volta”. Queste sono le parole rinascita, riconciliazione, risurrezione, rimettere il debito, rinnovamento... redenzione.

È quella piccola sillaba “ri” che dice: “non ti devi arrendere, c’è un sogno di cui non ti è concesso stancarti”.

Anche padre Ermes cita, come frère Roger, le parole di san Gregorio di Nissa, il quale suggerisce: «Noi andiamo tutti di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi». Perché con Dio c’è sempre un dopo, lui non permette che ci arrendiamo, offre sempre una seconda possibilità, e non una volta soltanto, ma ogni volta di nuovo. È come se Dio perennemente ti dicesse: vieni, con me vivrai solo inizi; non stileremo consuntivi, ma tracceremo preventivi.

Ermes Ronchi, nel decennio scorso era stato in Mongolia, la chiesa cristiana più giovane del mondo, in una piccola comunità missionaria di frontiera, e gli piaceva domandare ai cristiani di quella chiesa nascente: «Che cosa ti ha sedotto del cristianesimo?». Una delle risposte più frequenti era: «Sono diventato cristiano perché ho capito, ho sperimentato che la mia vita può ricominciare. Ho sbagliato molto, ma la misericordia di Dio mi ha fatto ripartire». Avevano intuito che l’uomo può rinascere dall’alto.

Il ricominciare ha però una direzione, e non è quella del criceto che gira impazzito nella ruota. La indica un’espressione di padre Giovanni Vannucci: «la vita spirituale è crescere a più libertà, a più consapevolezza, a più amore».


Crescere a più libertà. Liberi da che cosa? Soprattutto dalla paura. 365 volte ritorna nella Bibbia l’esortazione di Dio: non temere, non avere paura. 365 volte, una al giorno, il buongiorno di Dio, a ogni risveglio: non temere!

E queste sono anche le tre semplici regole dell’umana pedagogia, che Ronchi riprende dal testamento di un prete operaio di Milano, don Cesare Sommariva: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura.

E poi la libertà dalla lettera, il seguire le regole alla lettera. Ronchi dice che – come hanno insegnato i maestri dello spirito – la lettera va adoperata non per adorare la cenere, ma per custodire il fuoco.

E io ci aggiungo poi: libertà dal fare le cose solo per “dovere”, libertà da cosa pensano gli altri, libertà dal “si è sempre fatto così”. Ma tutto questo si lega al punto successivo.


Più libertà e più consapevolezza. Tra i racconti su Gesù non scritti nei testi canonici, ma tramandati da altre fonti, in margine ai racconti evangelici, ce n’è uno inserito dopo il brano di Luca in cui i discepoli si fermano a strappare le spighe e a mangiarle in giorno di sabato (cfr. Lc 6,l 5). Dice: «Il Maestro, vedendo un uomo lavorare di sabato» – che era il peccato più grave – «disse: “O uomo, se sai perché lo fai, sei benedetto; se non lo sai, sei colpevole”».

Si può infatti trasgredire ed essere benedetti, se sai perché lo fai. Come afferma Dietrich Bonhoeffer: «Qualche volta per essere giusti bisogna commettere un peccato».

Questo paragrafetto di Ronchi riporta al primato della coscienza, come a dire: “faccio quello che la mia coscienza mi dice che è giusto fare, quello che è la cosa da fare ora”, e la coscienza, per essere retta, deve essere consapevole. Quali sono le forze che mi tirano o spingono? A quali voci do ascolto? Mi comporto in un certo modo perché “si è sempre fatto così” o perché così dicevano mia nonna e mia madre? Faccio questo per interesse, avidità, desiderio di prestigio, per compiacere il pensiero comune? O, all'opposto, lo faccio per essere diverso e affermare la mia unicità, affermare che io sono uno dei pochi che ha capito le cose? Quindi, in questo caso, credo di essere libero e invece mi comporto secondo uno schema fisso, anche se me lo sono dato da solo. Sono domande da farci spesso, per essere sempre più consapevoli, e quindi liberi.


E poi più amore. Amore è la passione di unirsi, il desiderio di unione con l’oggetto del tuo amore. Essere innamorati è l’unica prefigurazione del regno, dice Ronchi. In sostanza, ci dice Ronchi, crescere a più amore, è uscire da sé stessi, è andare verso l'altro. Con altre parole si potrebbe dire che è ascoltare sempre meno la voce del mio ego, le mie idee, le mie preferenze, i miei interessi, le mie ambizioni, le mie abitudini, per ascoltare l'altro.

In principio, dunque, i legami. Non c’è infinito quaggiù al di fuori delle relazioni buone, afferma Ronchi.


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L’infinita pazienza di ricominciare è espressa nella Bibbia con due parole che indicano una sola cosa, un unico movimento. Scorrendo i 73 libri di cui è composta la Bibbia, ci si accorge che il dialogo tra cielo e terra è tessuto con un filo molto fisico, un filo quasi corporeo. Le grandi svolte della sacra scrittura sono indicati dall’espressione «alzati e va’».

Alzati dalla posizione seduta o arresa, dalla vita immobile, e mettiti in cammino. È detto nei momenti decisivi: ad Abramo, al popolo in Egitto, ai profeti che si erano accomodati o omologati, è detto a Giona, a Elia, ai grandi peccatori, a Giuseppe per la fuga e per il ritorno dall’Egitto; la risurrezione stessa di Gesù è detta con i verbi dell’alzarsi e dello svegliarsi. In tutti i libri della Bibbia, dalla Genesi all’Apocalisse, si trova questo filo conduttore: «alzati e va’», ricomincia.


Per noi è scritto questo «alzati e va’». Da dove ci eravamo fermati, Dio ci fa ripartire. Dio è un colpo di vento nelle vele della nostra nave.

Io la vela, Dio il vento, un vento che non sai da dove viene e dove va, ma sai di sicuro che lui è «un vento che non lascia dormire la polvere», come dice padre David Maria Turoldo in un suo inno.


In opposizione alla vita seduta o sdraiata il vangelo offre le beatitudini. Pensiamo all’etimologia profonda del termine “beati”, che André Chouraqui [scrittore e filosofo francese e israeliano del secolo scorso] traduce così: «In piedi voi, i poveri, alzatevi! Dio cammina con voi. In piedi, in marcia voi non violenti! Dio vi dà la terra». In piedi, per una vita verticale.

Alzarsi per avviare processi, per iniziare percorsi, per un primo passo che è sempre possibile, in qualsiasi situazione ci si trovi, almeno un passo. Anzi il salmo 84 (il salmo del pellegrino) canta con un’espressione stupenda: «Beato l’uomo che ha sentieri nel cuore». [Nella versione che troviamo nelle lodi del mattino si legge «Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio»]. Il Vangelo apre sentieri nel cuore, fa andare. Noi siamo programmati così: l’uomo per star bene deve andare.


L’infinita pazienza di ricominciare ha anche un secondo punto di vista, che Geremia illustra così: «Scesi nella bottega del vasaio, ed ecco, egli stava lavorando al tornio. Ora, se si guastava il vaso che stava modellando, come capita con la creta in mano al vasaio, egli riprovava di nuovo e ne faceva un altro, come ai suoi occhi pareva giusto» (Ger 18,3-4).

Il vasaio – che è Dio – non butta mai via la creta, non ti butta mai via, ti riprende in mano, ti rimodella con la forza paziente delle mani, con il calore dei polpastrelli, con la visione interiore di ciò che puoi diventare.

C’è un detto rabbinico che assicura: per noi lavorare con vasi rotti, con pentole rotte, è una sciagura; per Dio, al contrario, è un’opportunità. Noi siamo le anfore rotte di Dio, rimesse sul tornio sempre di nuovo.

Oppure, seguendo un’altra bella metafora: le anfore che si rompono non possono più contenere l’acqua, è vero, ma possono essere adoperate per fare da canale, attraverso cui l’acqua scorre libera e arriva alla sete di altri.

Ricominciare: anche se siamo anfore rotte, possiamo diventare canali, servire ancora all’acqua, seppur con un altro ruolo.


OGNI GIORNO RITROVARE SE STESSI

Siamo come figli prodighi, dice Ronchi, che talvolta si sono smarriti, lontano da casa. In sostanza, per ricominciare nelle direzioni viste sopra, devo innanzi tutto ritrovarmi.

Ritrovare se stessi inizia da una domanda: ma chi sono io?


Sono forse i miei pensieri? Ma quante idee sbagliate ho coltivato e abbandonato … Sono forse quelle idee sbagliate? No.

Sono la mia volontà, le mie decisioni? Ma quanta fragilità, quanti tentennamenti

Sono i miei sentimenti? Ma ho dentro una tavolozza complessa, che oscilla dai colori più scuri ai più luminosi …


Tutte queste cose vanno a formare quello che altri chiamano il nostro”ego”, la nostra falsa identità, quello che noi crediamo di essere. Sono le cose con cui ci identifichiamo e che ci separano dagli altri.

A questo proposito voglio condividere un mio “lampo di illuminazione”, quella volta che, a preghiera di Comunità, riconoscendo le mie debolezze, i miei limiti, le mie fissazioni, ecc., mi ero sentito di dire al Signore: “Grazie del Carlo che mi hai dato. È con quel Carlo lì che io devo lavorare”. In quel momento riconoscevo che il mio vero io era qualcosa di più profondo di quel Carlo, era quello che osservava quel Carlo lì, e questo era un primo passo per cominciare un cammino di maggiore consapevolezza.


Quindi io non sono i miei pensieri, non sono la mia volontà, non sono i miei sentimenti. C’è qualcosa di più profondo di idee, decisioni ed emozioni, e tutte le religioni l’hanno, da sempre, chiamato “cuore”. Altri lo chiamerebbero il mio “io” profondo, la mia coscienza profonda.

Questo “cuore” non è la sede dei sentimenti, ma il mio principio di unità. Il cuore, uso le parole poetiche di Ronchi, è la cattedrale del silenzio, là dove si sceglie la strada, dove si accolgono o si respingono le emozioni che sorgono selvatiche. Il luogo delle infinite rinascite, dove si ascolta, si ama, si gioisce, si sceglie.


1.) Alcuni passi, dice Ronchi, mi hanno aiutato e mi aiutano a ritrovarmi, innanzitutto a partire dalle domande del cuore. Anche Dio ci educa alla vita, alla fede, attraverso domande, non attraverso formule o risposte. La prima parola di Gesù nel vangelo di Giovanni è una domanda: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). Qual è il vostro desiderio profondo?

Per Ronchi la prima domanda, la più vitale, quella in cui ritrova il cuore, da cui inizia ogni incontro con la sua anima, è questa: ma io sono contento? Mi piace la mia vita?

Questa prima domanda non è di tipo morale o etico (sono buono o cattivo? Credo poco o credo male?), ma riguarda ciò che germoglia nel nostro spazio vitale: ma io sono felice?

Aggiungo un mio commento. Dio ci vuole felici, come dice Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena». Se non lo siamo vuol dire che siamo prigionieri di qualcosa come risentimenti, paure, pretese dagli altri o da noi stessi. Anch'io personalmente avevo come “scoperto” che questa domanda è quella di base per capire se cammino nel verso giusto. Se non sono contento vuol dire che c'è qualcosa che non va. È anche capitato che mi andassi a confessare cominciando proprio dal “denunciare” di non essere contento. Potrebbe essere perché sono amareggiato perché altre persone non agiscono come io penso che dovrebbero: in sostanza io ho delle pretese sugli altri, non li accolgo come sono. Oppure che mi pongo obiettivi contrastanti: da una parte penso che dovrei fare certe cose utili per me o per gli altri e dall'altra non ne ho voglia. In ogni caso è perché do troppo ascolto al mio “ego” che mi fa troppi discorsi in testa. Chiusa la parentesi, riprendo con Ronchi.

Questa domanda (ma io sono contento?) è come un punto di agopuntura che, attivato, contribuisce a guarire l’intero corpo.

La seconda domanda è un approfondimento della prima: quali sono le cose che mi procurano gioia, ma gioia che duri? Lo specifico metro della gioia non è l’intensità, una fiammata che brucia tutto, ma la durata. Don Michele Do amava ripetere un suo slogan: dura ciò che vale e vale ciò che dura.

Il primo esercizio per ritrovare il cuore, suggerisce Ronchi, è stilare l’elenco – ed è breve – delle cose che mi danno gioia che dura. Forse mi accorgerò che la gioia viene dai volti. Questo è il perno attorno al quale la vita ritrova sé stessa.

Ermes Ronchi dice di averlo imparato leggendo la vita di Ignazio di Loyola, cavaliere di Spagna ferito all’assedio di Pamplona. È ricoverato in un piccolo ospedale per la convalescenza e si fa portare dei libri da leggere, libri di due tipi: storie di cavalieri e storie di santi. Lui scrive: «Mi piacevano tutti e due i generi, ma c’era una differenza: uno di questi mi procurava un piacere che durava più a lungo dell’altro, ed erano le vite dei santi». Questa esperienza di piacere più duraturo è il punto di partenza della sua conversione.

Sant’Agostino l’aveva teorizzato così: nelle scelte della vita vince la promessa di più gioia, perché «l’uomo segue quella strada dove il suo cuore gli dice che troverà la felicità».

Che cosa fa muovere e avanzare la vita? Un’attrazione e una passione. La vita è un uscire, un andare oltre … La vita non avanza per divieti o per obblighi, ma per attrazione. Avanza per una passione, e la passione nasce da una bellezza, almeno intravista: la bellezza è profezia di gioia.

La cosa più bella è comunque – sempre – l’atto d’amore. E la cosa più bella della storia, dice Ronchi, è l’atto d’amore che è accaduto fuori dalle mura di Gerusalemme, su quella collina, dove il Signore Gesù, povero, si fece crocifiggere su un po’ di legno conficcato su un palmo di terra.


2.) Alle domande del cuore Ronchi aggiunge anche tre verbi lo aiutano a ritrovarsi: vedere, fermarsi, toccare.

Sono tre dei dieci verbi con cui è descritto il buon samaritano che incrocia l’uomo incappato nei briganti (Lc 10,30-35). Dieci verbi che a Ronchi piace sentire e leggere come se fossero i nuovi dieci comandamenti, il nuovo decalogo, possibile a tutti, a chi ha una vita religiosa e a chi non ce l’ha, perché la vita sia abitata da prossimi e non da avversari.

I dieci verbi sono: vide, ebbe compassione, si fermò, versò, fasciò, caricò, portò, fece tutto il possibile, pagò, se non basterà ti pagherò al mio ritorno. E le prime tre azioni sono: vedere, fermarsi, toccare, tre azioni che servono anche a noi per ricominciare.


2a.) Vedere. Il samaritano vide ed ebbe compassione. Vide le ferite, e si lasciò ferire dalle ferite dell’altro. Il mondo è un immenso pianto e Dio naviga in un fiume di lacrime invisibili a chi ha perduto se stesso, il cuore.

Per vedere è necessario aprire gli occhi. Come fa il Signore con Agar nel deserto con il bambino Ismaele che le muore; «Dio le aprì gli occhi» ed ella vide un pozzo d’acqua dove prima c’era solo sabbia (cfr. Gen 21,19), un pozzo che era già lì, ma che lei non riusciva a vedere.

In ebraico occhio si dice ‘ayin, termine che significa anche sorgente. Se apri gli occhi si aprono sorgenti, negli altri e in te. Uno sguardo giudicante paralizza e separa, mentre uno sguardo non giudicante, ma includente, disseppellisce sorgenti negli altri, apre il futuro. Gesù sapeva guardare negli occhi di una persona e scoprire, dietro un centimetro quadrato di iride, l’urgenza di una promessa, una sete, un'energia trattenuta, un futuro. Il suo era uno sguardo liberante.

Una frase illuminante di Matteo dice così: «la lampada del corpo è l’occhio» (Mt 6,22). Noi abbiamo occhi di lucerna, che non solo vedono, ma come lampada gettano luce, irradiano luce, avvolgono di luce le cose che guardano.

Troppo facile chiudere gli occhi, adducendo a pretesto il grigiore della città e dei volti. Io so una cosa, dice Ronchi riprendendo una frase di Angelo Casati: ogni volta che mi chino a sorprendere germogli, ogni volta che mi succede di navigare per occhi di persone che amo, ogni volta che pianto un seme e spio il gonfiarsi della terra, esco con gli occhi che sorridono (Angelo Casati, sacerdote, saggista e poeta milanese, che ha compiuto 90 anni nel maggio 2021).

Ermanno Olmi dice che per vedere bene un prato bisogna inginocchiarsi. Non si possono amare i boschi se li vedi solo come una fabbrica di ossigeno. L’amore nasce da un rapporto diretto, e c’è un solo modo per conoscere il bosco o il prato: inginocchiarsi e guardarlo da vicino.

Forse potremmo continuare all’infinito. C’è un solo modo per conoscere il tuo uomo, la tua donna, Dio, una città, un prato, una pieve: inginocchiarsi e guardarla da vicino. Guardare gli altri a millimetro di viso, di occhi, di voce, e non da lontano. Guardare come bambini e ascoltare come innamorati.

Se vedessimo la terra, l’umanità, la nostra casa, ogni creatura con gli occhi che accarezzano in silenzio e illuminano l’altro, senza desiderio e senza violenza, quante cose cambierebbero! Le parole nascerebbero lievi e non di pietra.

Pensiamo al modo con cui Gesù guardava: il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato di una persona, il suo primo sguardo si posa sempre sulla sua povertà e sul suo bisogno. Abbandonare lo sguardo giudicante che classifica in buoni e cattivi, spezzare lo schema “buoni e cattivi, innocenti e colpevoli” e acquisire lo sguardo includente di Gesù, che non si posa mai sul merito dell’uomo, ma sul bisogno. E lo illumina.

È lo sguardo del padrone del campo nella parabola del buon grano e della zizzania, che mette in scena un conflitto di sguardi (cfr. Mt 13,24-30). Lo sguardo dei servi si fissa sul male, sulla zizzania, vede le erbacce. Lo sguardo del padrone vede il buon grano, illumina la spiga incamminata verso la pienezza. Non strappate via – dice – l’erba cattiva, perché rischiate di strapparmi le spighe. E per me una spiga di buon grano vale più di tutta la zizzania del campo.

La luce conta più del buio, il bene vale più del male. Acquisire questo sguardo, che vede anche le ferite e se ne lascia ferire. E insieme lo sguardo che salva lo stupore: cioè, usando le parole di Ronchi, avere occhi di lucerna che illuminano il bene, il positivo, che vedono l’estate profumata di frutti e l’autunno festoso di colori, che intuisce il domani nell’oggi faticoso, che si posa sui talenti. Nessuno solo con le sue ferite, ben sapendo che nessuno coincide con esse.


2b.) Fermarsi. Un grande scalatore racconta che durante una salita sull’Himalaya, a un certo punto lo sherpa nepalese che lo accompagnava depone il carico, si ferma e si siede. Allo scalatore che gli chiede il perché risponde: «Mi siedo per aspettare la mia anima, perché è rimasta indietro».

La nostra vita è senza tregua, una corsa, una scalata senza respiro, al punto che spesso l’anima rimane indietro. Che ti giova guadagnare un’alta montagna o il mondo intero, se poi perdi l’anima? Possiamo chiederci anche noi: dove corri? Non sai che il mondo, non sai che il cielo è in te?

lo faccio molto per questo mondo, dice Ronchi, quando sospendo la mia corsa per dire “grazie”. Fermarsi addosso alla vita, vita che è fatta di persone, perché la vita non ha un senso prestabilito, né senso vietato né senso obbligatorio. E se non ha senso, vuol dire che va in tutti i sensi e che trabocca di senso e tutto inonda.

La vita fa male quando le si vuole imporre un senso, piegarla in una direzione o in un’altra. Se non ha senso, significa che essa è il senso. Come dice Dostoevskij: «ama la vita più della sua logica, solo allora ne capirai il senso».

O come dice san Giovanni nel prologo del suo vangelo: «in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (Gv 1,4). È una cosa straordinaria: la vita è la luce degli uomini. Vuoi luce? Fermati e guarda la vita.

Bisogna essere come una nave che non è in ansia per la rotta da seguire, perché sappiamo di avere su di noi il vento di Dio. La vita si rivela solo a coloro i cui sensi sono vigilanti [i sensi, non il pensiero, non la mente che rimugina in continuazione!] e che si spingono in avanti, come felini tesi in agguato verso il minimo segnale. Tutto sulla terra ci interpella, ci chiama, ma così lievemente che passiamo mille volte senza vedere alcunché. Noi camminiamo su gioielli senza notarli.


2c.) Vedere, fermarsi e poi Toccare. Per chiarire cosa ci vuole dire, Ronchi si serve di due episodi narrati nel vangelo.

All’inizio del racconto di Marco, Gesù incontra un lebbroso, che gli grida di aiutarlo. Davanti al lebbroso, al contagioso, all’impuro, al rifiutato, un cadavere che cammina, che non si deve toccare, cacciato fuori, uno scarto, e che chiede da lontano di essere guarito, Gesù prova compassione (Mc 1,41). Il testo greco usa un verbo (splanchnízo) la cui traduzione letterale potrebbe essere: sentì subito un crampo nel ventre, un morso nelle viscere, uno spasmo, una ribellione che dice: no, non voglio, non deve essere punito. E allora Gesù che fa? Si ferma. E poi?

Lo tocca. Tocca l’intoccabile. Ogni volta che Gesù si commuove, tocca.

È parola dura per noi, per me. Ci mette alla prova. Non è spontaneo toccare il contagioso, l’infetto. Lasci cadere la moneta dall’alto nella mano del povero, attento a non toccarlo, perché non è tanto pulito, fai un gesto senza coinvolgimento di viscere.

Trovare l’anima, ritrovare se stessi è un fatto di grembo e di tatto. Di grembo e di mani. Il tatto è tra i cinque sensi quello che apre il Cantico e lo riempie, è un modo di amare. Gesù tocca il lebbroso, e toccando ama, e amando lo guarisce.

La seconda scena è ambientata a Naim (cfr. Lc 7,11- 17). Gesù incrocia il corteo funebre che porta alla tomba l’unico figlio di una madre vedova che piange, piange come può fare solo chi è folgorato dal dolore più atroce. Gesù la vede, la vede piangere e subito prova compassione, sente questo crampo nel ventre, un groppo allo stomaco (esplanchnísthe). La compassione è quando il dolore dell’altro fa piaga nel cuore. Gesù davanti al dolore ha questa reazione: prima di tutto prova dolore per il dolore dell’uomo. E poi si ferma, non tira via, non passa oltre magari dicendo, come capita a noi: non disturbiamola nel suo dolore. Lui vede, si commuove, si ferma, e la sua prima parola è: «Non piangere!».

Che bello il nostro Dio! L’abbiamo scelto per questo! Per usare un ossimoro: l’abbiamo scelto per la sua umanità che gli causa dolore, un morso, un’unghiata, un graffio nel cuore davanti a quella madre.

E poi tocca. Viola la legge, fa ciò che non si può: prende il ragazzo morto, lo rialza e lo dà a sua madre, in un atto di nascita. Gesù partorisce. Perché la misericordia è tutto ciò che è essenziale alla vita, la compassione è ciò che ci fa ritrovare la nostra anima rimasta indietro.

Se c’è una malattia che Gesù teme più di tutte, che combatte più di tutte, è la durezza di cuore, la sklerokardía, l’impietrimento del cuore, l’incapacità di sentire il morso delle viscere. Il rischio più grande è quello di diventare analfabeti del cuore, di essere burocrati delle regole, funzionari delle norme e analfabeti del cuore di Dio e del cuore dell’uomo.


Le prime tre azioni per ritrovare se stessi sono, dunque, vedere con compassione, fermarsi e toccare.

Perché ritrovare se stessi è ritrovare il proprio cuore e ritrovare gli altri. Per noi esistere è coesistere.

La velocità produce cecità, e la cecità produce durezza di cuore. La cecità e la velocità creano gli invisibili, i tanti invisibili delle nostre città, quelli a cui passiamo accanto e che neppure vediamo.

Lo sguardo spento produce buio, e poi innesca un’operazione ancor più devastante: rischia di trasformare gli invisibili in colpevoli, di trasformare le vittime come ad esempio i profughi, i migranti, i poveri con il loro assedio che non si placa in colpevoli e in causa di problemi.

Così accade se non vedi, non ti fermi, non tocchi. Le persone sono declassate a problema, anziché diventare fessure di infinito.


OGNI GIORNO ABBRACCIARE L’INFINITO

Per Ermes Ronchi il ricominciare di ogni giorno, a più libertà, a più consapevolezza, a più amore, richiede anche un altro “ingrediente”, quello di abbracciare, o farsi abbracciare, dall'infinito. Vediamo quindi cosa ci vuole dire.

Ronchi adotta un suo piccolo metodo per lasciarsi abbracciare dall’infinito: di tanto in tanto, fare la creatura. Noi, plasmati dal mito dell’homo faber – dell’uomo che deve fare, produrre, creare, inventare, lavorare –, tornare a essere non il vasaio, ma il vaso, l’argilla: creatura fra le creature. Invece di essere sempre autori e vittime di una vita di scopi da raggiungere, tornare come bambini.

Una bella metafora di Martin Heidegger dice che l’uomo è come un’isola. La mia vita è come un’isola, io la percorro tutta, la spiaggia, i promontori, le insenature, e quando ho terminato il periplo dell’isola e torno al punto di partenza, mi accorgo di una cosa: che là dove finisce l’isola comincia l’oceano. Che il confine dell’isola è l’inizio dell’infinito, che il confine dell’uomo è Dio. Che tu confini con Dio, tu isola nell’oceano.

Qui Ermes Ronchi inserisce un pensiero di tipo scientifico che lo ha colpito. Le cellule del nostro corpo sono basate sul carbonio, però il carbonio non era presente all'inizio dell'universo, ma è il risultato di dieci miliardi di anni di reazioni nucleari avvenute nelle stelle. Ronchi ne è affascinato: “Un atomo di carbonio in una cellula del cervello umano ha un pedigree che risale indietro a prima della nascita del sistema solare, quattro miliardi e cinquecento milioni di anni fa.” e conclude così: “Leggiamo in Genesi che Dio plasmò l’uomo non con la creta, ma con polvere del suolo, con polvere cosmica! Siamo un impasto di polvere cosmica e di fiato divino”. E quindi prosegue: “Quando mi sento creatura in questo modo, quando sento di condividere con tutte le altre creature viventi un patrimonio genetico che risale agli organismi primordiali dei mari antichi, allora capisco che batteri, pini, mirtilli, castagni, cavalli, le balene grigie, tutti nella grande comunità della vita siamo parenti.”

Ciò fa degli esseri umani i cantori dell’universo e i custodi dell’universo: capaci di cantare le lodi e di rendere grazie a nome dell’intera comunità cosmica di cui facciamo parte (usa parole di Abraham loshua Heschel, grande studioso del giudaismo del '900, filosofo e teologo). Siamo tutti interconnessi nell’unica storia dell’universo e siamo tutti fatti di polvere di stelle e di respiro divino. In noi l’infinito ci abbraccia. Dobbiamo prenderne consapevolezza per abbracciare a nostra volta l’infinito.

Siamo creature: la stessa parola “creatura” conserva nella sua etimologia una sfumatura di futuro, di progetto, in analogia a termini come nascituro, morituro, venturo. Siamo coloro che non hanno finito di essere creati, che sono ancora nelle mani di Dio, che non hanno mai finito di nascere, che vengono dal futuro ancor più che dal passato. Con l’eterno che si insinua nell’istante presente e l’istante che fiorisce nell’eterno.

Sempre Ronchi, nel libro “Il futuro ha un cuore di tenda”, dice che la vita procede non spinta da quello che si è ora o che si è stati, ma dal sogno di quello che saremo: un seme germoglia e cresce non spinto da quello che era all'inizio ma dal sogno della pianta, dei fiori e dei frutti che ne verranno fuori. Il grano che cresce “sogna” la spiga che un giorno arriverà a maturazione. Così anche noi: siamo attirati dal futuro e non spinti dal passato!

Stiamo sempre nascendo, siamo sempre nella preistoria di noi stessi. L’uomo non è tanto un essere mortale, ma ancor più è un essere “natale. Dobbiamo essere indulgenti con il nostro lungo nascimento che è la vita. Maria Zambrano (una filosofa spagnola del 1900, dalla vita molto movimentata, vissuta nella Spagna di Franco, in Sud America e nel resto d'Europa) afferma: «Noi nasciamo a metà. Tutta la vita ci serve a nascere del tutto».


Proseguo con le parole di Ronchi nel penultimo paragrafo di questa riflessione.

Un secondo passo per abbracciare l’infinito – perché c’è un altro infinito in me -, per ritrovare quel respiro, quel pezzetto di Dio che è in me, è la preghiera. Penso alle sei anfore di pietra, collocate all’ingresso della casa degli sposi a Cana di Galilea. Molte volte mi sento così, anfora vuota, vaso che ha perduto la sua acqua. La nostra vita si disidrata così facilmente. Come fare per nutrirla di nuovo?

Quando mi sento così, mi metto a pregare seguendo un’immagine: vedo me stesso come una delle sei anfore di Cana, come un vaso che ha perduto la sua acqua, ma che ora una mano mette sotto il getto della fontana, della sorgente che è Cristo.

Una sorgente che non verrà mai meno, che è sempre disponibile, che non si esaurisce, che mi riempie. E dandomi se stesso, Dio mi da tutto: pace, luce, gioia, coraggio, sogni.


Ronchi dice riguardo alla preghiera: “Amo le preghiere brevi, non quelle lunghe. Mi sono sempre sentito in colpa davanti alle preghiere lunghe, perché mi pesano. Questo senso di colpa mi è durato fino a che ho letto una massima di un padre del deserto, Evagrio Pontico: «non compiacerti del numero dei salmi che dici. Vale di più una sola parola nell’intimità che mille stando lontano».

Non la quantità delle parole, del tempo nella preghiera, ma l’intimità anche di un solo istante. Allora guardo la mia vita, la mia giornata, e mi accorgo che ogni giorno Dio stesso si incarica di seminare piccoli semi di preghiera in me: un pensiero buono, un brivido di gioia, uno sguardo a una persona, a un crocifisso sulla parete, una gentilezza inattesa da uno sconosciuto, la bellezza del creato o l’eco di un canto, il silenzio di una notte d’inverno … Tutte piccolissime cose, a cui basta poco per rispondere: un battito del cuore, un brivido, un pensiero, una carezza nell’intimità con Dio.

L’esortazione paolina «pregate ininterrottamente» (1Ts 5,17) può essere messa in pratica non nell’estensione, ma solo nell’intensità. Se rispondi, si aprono brecce nel cielo, finestre di luce, che forse si richiudono presto, ma intanto hai respirato mistero.

Amo le preghiere brevi, le formule lampeggianti come lucciole nella notte, come un morso di luce sul cuore. Preghiere leggere come fili di seta che lancio oltre il muro; non possenti come una fune su cui arrampicarmi, ma leggere e così numerose da creare come un tappeto su cui sento posarsi lieve il piede di Dio.


E infine l'ultima parte della riflessione di Ronchi.

Per abbracciare l’infinito – oltre al sentirsi creatura e al metodo delle preghiere brevi come lucciole nella notte – c’è poi la strada della poesia, la via della bellezza.

Scrive con parole magiche padre David Maria Turoldo: «un solo verso, / fessura sull’infinito come / il costato aperto di Cristo -, anche / un solo verso può fare / “più grande l’universo”».

Anche altri maestri di spiritualità indicano la via della bellezza come strada per entrare in contatto con l'infinito, con lo Spirito della vita, in definitiva con Dio. Eckhart Tolle dice che lampi di intuizione li possiamo avere, ad esempio, quando rimaniamo incantati davanti a un cielo stellato, oppure ad ascoltare il rumore di un torrente, o il canto di un uccello, ma anche un fiore o un bambino. Occorre però avere la mente in quiete, per far durare questo lampo di intuizione. La mente che ragiona non può percepire la bellezza! Solo la nostra consapevolezza, il nostro io più profondo, può farlo e percepire l'infinito. Normalmente, dopo un tempo brevissimo di stupore, la mente comincia a dare nomi, a porre etichette... e il momento di stupore resta solo un ricordo. Lasciamolo invece durare più che possiamo, questo momento di stupore, facendo tacere la mente, per acquisire maggiore profondità in noi!

Come contrappunto per le risonanze del cuore, Ronchi riporta la seguente lirica giovanile di Alda Merini, forse la sua prima, scritta probabilmente a 17 anni, esprime bene l’anelito ad abbracciare l’infinito:


Bisogna essere santi per essere anche poeti:

dal grembo caldo d’ogni nostro gesto,

d’ogni nostra parola che sia sobria,

procederà la lirica perfetta

in modo necessario ed istintivo.


Noi ci perdiamo, a volte,

ed affanniamo per i vicoli ciechi del cervello,

sbriciolati in miriadi di esseri

senza vita durevole e completa;

noi ci perdiamo, a volte,

nel peccato della disconoscenza di noi stessi.


Ma con un gesto calmo della mano,

con un guardar “volutamente” buono,

noi ci possiamo sempre ricondurre

sulla strada maestra che lasciammo,

e nulla è più fecondo e più stupendo

di questo tempo di conciliazione.


Buon cammino di nuovo inizio quotidiano a tutti!

(Nota: il testo completo originale, con presentazione, introduzione e dialogo finale col pubblico, lo si può trovare a questo link: 

https://uomo-fra-il-nulla-e-l-infinito.webnode.it/news/infinita-pazienza-di-ricominciare/ )