Campo San Giovenale di Peveragno domenica 1-8-2010
Padre
Nostro che sei nei cieli
Una premessa
La nostra riflessione e condivisione non sia fatta
con la testa, ma con il cuore in senso biblico, dove appunto il cuore non
è solo il luogo dei sentimenti, ma anche e soprattutto il luogo
dove si esprime la completezza della persona ed in particolare quella conoscenza
che è esperienza di amore (cfr. discepoli di Emmaus).
La duplice relazione dell’uomo
Se il Padre Nostro è la preghiera cristiana
per eccellenza, l’unica, la tipica a cui tutte le preghiere devono rifarsi;
con questa prima espressione si vuole indicare che la preghiera, e di conseguenza
la vita del cristiano, ma vorrei affermare la vita di ogni uomo, è
segnata da una duplice relazione: la verticalità dell’amore di e
verso un Dio che è Padre e l’orizzontalità del rapporto con
gli uomini riconosciuti come fratelli. Il cristiano, l’uomo, non può
escludersi da questa doppia relazione, pena il perdersi in sé stesso,
nel suo egoismo ed infine nella sua disperazione causata dall’essersi legato
a falsi idoli. L’invocazione “Padre Nostro” ci spinge ad aprire
una riflessione su due domande fondamentali per l’uomo, per ciascun uomo:
Chi è Dio per me? Chi sono gli altri uomini per me? D’altronde
Gesù stesso rispondendo a chi gli chiedeva quale fosse il comandamento
più grande non esita a ricordare le fondamentali relazioni dell’uomo
con Dio e con i fratelli (cfr. Mt 22,36-40).
Due grandi interrogativi che hanno segnato da
sempre l’esperienza dell’uomo, di ogni uomo; vorrei provare a scorrere
insieme a voi le risposte che l’uomo ha dato a questi interrogativi che
caratterizzano in fondo quello che voglio chiamare il bisogno spirituale
dell’uomo in ogni tempo, bisogno al quale l’uomo ha cercato di dare una
risposta.
Chi è Dio?
Di fronte a questa domanda l’uomo ha dato da sempre
tre tipi di risposte:
Dio non esiste e se anche Dio esistesse di lui
non mi importa nulla: è l’atteggiamento
ateo e agnostico di chi nega anche il problema religioso o meglio spirituale.
Se Dio non esiste o comunque non entra nella mia vita è chiaro che
ne consegue una concezione della vita per cui tutto è un caso e
soprattutto nulla nella mia vita ha un senso né esiste un futuro
e tutto si chiuderà con la mia morte e quindi di fronte a me ritrovo
due vie egualmente destinate alla distruzione nichilistica della persona:
il piacere sfrenato o la disperazione.
Dio c’è infatti mi serve:
è l’atteggiamento delle religioni antiche e moderne che siano di
stampo pagano e politeista, dove la divinità è vista nel
suo volto anche umano, oserei dire, ma che governa la vita dell’uomo. L’uomo
in balia della divinità di turno, dei suoi capricci e delle sue
lune presuppone una concezione dell’uomo come colui che deve ingraziaziarsi
in qualche modo Dio perché questi possa aiutarlo nel momento del
bisogno. La prospettiva è quella di una visione di Dio estremamente
utilitaristica, un Dio pronto per ogni evenienza, ma anche un Dio pronto
ad essere gettato nella spazzatura nel momento in cui non dovesse più
corrispondere ai miei desideri.
Dio è importante nella mia vita e con Lui
io desidero stabilire un rapporto: è
il Dio della fede, un Dio che è creatore, salvatore, alleato, difensore
del popolo, anzi che è fondamento della coscienza collettiva del
popolo (il Dio di Abramo per gli ebrei che libera, salva il popolo e poi
dona al popolo la Legge perché attraverso essa possa ritrovarsi
unito) oppure il Dio che diventa tutta la tua vita omnicomprensivo di ogni
istante e di ogni cosa che ti accade, dove il rapporto è simile
a quello tra un padrone ed il suo schiavo (mu-slim). Qui il rischio è
di ritrovarsi di fronte ad un Dio totalizzante al quale sì affidare
la mia vita, ma rischiando di mandare al macero il cervello ed il cuore
in un fondamentalismo religioso che riduce il tutto alla mera sequela della
legge e del progetto di Dio, distruggendo l’uomo in quanto persone ed in
fondo quindi capace di un rapporto.
Chi è l’altro
Anche di fronte al secondo interrogativo (ovvero
chi è l’altro) possiamo trovare tre diversi atteggiamenti:
L’altro non esiste e se anche esistesse di lui
non mi importa nulla: vi è qui una duplice idea quella dell’altro
come nemico da distruggere e da annientare e quella dell’altro come lontano
dagli occhi e pertanto lontano dal cuore; da questa visione ne consegue
l’idea che l’uomo, come diceva Plauto e ribadì più tardi
Hobbes, è un lupo verso l’altro uomo: è la teoria della guerra
preventiva dove la vita conta, ma ha un valore diverso se tu sei nato a
Roma piuttosto che a Bagdad oppure a New York piuttosto che in un qualsiasi
villaggio dell’America Latina o dell’Africa.
L’altro mi serve: vi è qui una visione
utilitaristica dell’uomo, dove ognuno vale per ciò che può
dare o meglio può dare a me; una persona quindi assume quasi un
valore economico ed una volta perso quello, non potendo più mettersi
sul mercato, essa non esiste più.
L’altro è diverso da me: di fronte a
questo due sono le prospettive: la paura dell’incontro con chi, diverso
da me, viene per ciò stesso a rompere le mie sicurezze a togliermi
ciò che è mio, oppure la tolleranza piena di sentimenti solidaristici
e di accoglienza.
Un’Altra risposta, forse la Risposta
A queste risposte certamente valide, ma fondate
unicamente sul pensiero dell’uomo, noi aggiungiamo un’Altra risposta, la
Risposta di Gesù; infatti crediamo che se “Dio, nessuno lo ha mai
visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre
è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Ci affidiamo quindi a Colui
che è la Via, la Verità e la Vita per trovare risposta a
questo quesito fondamentale per la vita di ogni uomo: chi è Dio?
Chi è l’altro?
La risposta di Gesù è di una semplicità
sconvolgente: Dio è Padre, padre di tutti, padre nostro. Di conseguenza
viene la risposta al secondo quesito: se Dio è Padre di tutti, l’altro
non può essere che mio fratello.
Dio è Padre: una rilettura della parabola
del Padre e i suoi due figli (Lc 15)
A questo punto occorre cercare di capire quale
fosse l’idea di padre che Gesù aveva; certamente proclamare oggi
che Dio è padre nel momento di una forte crisi che colpisce le famiglie
può infatti portarci ad avere una visione non corretta. Gesù
ha parlato molte volte di Dio come padre, ma certamente in maniera chiara
e forte lo ha fatto nella parabola del figliol prodigo o padre
misericordioso, oppure oggi vorrei proporvi un nuovo titolo, quello
del padre sventurato.
In questa parabola troviamo la figura di un Padre
che si confronta con i suoi due figli; del Padre emergono otto caratteristiche
“che secondo la mentalità giudaica dovrebbe essere computato con
7+1 per indicare la pienezza della totalità che è anche sovrabbondante.”
Analizziamo, quindi ciò che questa parabola
dice riguardo al Padre:
“Un uomo aveva due figli”: l’uomo della parabola
è definito in relazione ai figli; Luca in greco usa l’espressione
“anthropos tis” che indica un essere umano senza una specifica connotazione
sessuale e sarebbe da tradurre con l’espressione “un tale”; pertanto se
leggiamo la figura del Padre in riferimento a Dio viene da dire che il
Dio di Gesù Cristo non si definisce per se stesso (filosoficamente
sarebbe una bestemmia), ma in quanto Padre, innanzitutto di Gesù
stesso e poi nostro: Dio ha bisogno di noi per essere Dio.
“Egli divise tra loro le sue sostanze” (traduzione
CEI): qui Luca usa il termine “ton bion” ovvero la vita; quindi di fronte
alla richiesta del figlio che vuole l’eredità (il termine ousia
significa sostanza in quanto natura), uccidendo dentro di sé il
Padre, è il padre stesso che offre la sua vita al figlio o meglio
ai figli: Dio dona tutta la sua vita per i figli.
“Quando era ancora lontano, il Padre lo vide, ebbe
compassione””: qui c’è la dimensione interiore del Padre che
aspetta da sempre quel figlio; possiamo essere anche molto lontani, ma
l’amore di Dio supera comunque le distanze. La traduzione parla di compassione:
cum-pati provare lo stesso sentimento, ma Luca usa il verbo greco che deriva
dall’ebraico raham che richiama l’utero materno nell’atto di generare la
vita; il soccorso dato a qualcuno è sempre un gesto generante. Qui
si presenta un amore viscerale senza ragione logica, un amore a perdere,
che solo una madre e un padre sanno sperimentare: Dio ci aspetta perché
l’amore paziente vede lontano.
“Gli corse incontro, gli si gettò al collo
e lo baciò”: È qui descritta una scena incredibile nella
mentalità sia ebraica, sia greca del tempo: il padre corre, inciampa
nel figlio quasi cadendogli addosso e lo bacia come per mangiarselo; il
correre è un gesto ignobile, contrario alla dignità di uomo;
il cadere sopra sembra quasi indicare il desiderio di riportare il figlio
all’interno del proprio corpo per rigenerarlo; il bacio segno del perdono
è espressione di un amore totale. L’azione di Dio trasforma figli
degeneri in figli rigenerati.
“Ma il Padre disse…”: il Padre (Dio) sembra
non voler neanche ascoltare ciò che il figlio vuole dirgli perché
la paternità supera e anticipa sempre la debolezza dei figli; così
la conversione non è un atto di volontà che noi presentiamo
a Dio, ma è la conseguenza dell’amore di Dio che perdona senza alcuna
richiesta. L’amore di Dio previene e suscita il nostro ritorno a Lui.
“Portate qui il vestito… mettetegli l’anello al
dito e i sandali ai piedi”. Tre simboli per indicare come l’uomo anche
dopo il peccato ritorni nella pienezza del suo essere figlio:
“il vestito, quello primo”: non uno qualsiasi,
ma quello della festa, ecco che il padre restituisce al figlio la dignità
che prima lo stesso figlio aveva ripudiato; inoltre il rito dell’investitura
è il riconoscimento ufficiale di un servizio o di un incarico;
“l’anello al dito”: simbolo di unione (per
la sua forma circolare che indica la perfezione del cerchio) e di autorità;
il padre non solo riconosce il rientro a pieno titolo del figlio in famiglia,
ma ridona al figlio l’autorità sulla casa ed il diritto all’eredità;
“i sandali”: camminare con i sandali significare
dominare ciò che si calpesta, perché essi sono il simbolo
della persona libera; il padre riconosce al figlio la piena autorità
e libertà.
Dio continua a rinnovare la nostra vita di figli.
“Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo
e facciamo festa…”: usando questo particolare linguaggio sacrificale,
Luca descrive un vero e proprio sacrificio di ringraziamento, eucaristico;
la motivazione dell’eucaristia e della successiva festa che ne è
il prolungamento è chiaro: quel figlio morto è tornato alla
vita. La gioia e la festa di Dio è l’essere con l’uomo che torna
a Lui.
“Suo Padre uscì a supplicarlo”: il padre
non si smentisce, coerente alla sua paternità con ciascuno dei figli
e nuovamente rinuncia alla sua dignità per andare incontro al figlio;
è lui nuovamente a fare il primo passo. Dio è testardo
ed insiste nell’amare i figli che non lo riconoscono Padre.
Figli del Padre quindi fratelli
A questo punto vorrei concludere con una breve
riflessione sui figli; Luca li descrive in modo negativo quindi per ritrovare
l’Altra risposta, o meglio la Risposta, dobbiamo leggere la parabola quasi
come una diapositiva in controluce:
“Dammi la parte che mi spetta… tu non mi hai mai
dato… tutto ciò che è mio è tuo”: a volte pretendiamo
da Dio quanto abbiamo già e non ci rendiamo conto dei doni che Dio
quotidianamente ci fa. Voglio un Dio distributore di doni secondo i
miei desideri trovo invece un Dio che desidera il bene per me.
“Partì per un paese lontano… si trovava
nei campi […] e non voleva entrare”: sento Dio come un nemico della
mia libertà, Dio è un essere da cui stare lontano in modo
da poter vivere la mia vita come voglio. Se scappo da Dio, Lui non smette
di cercarmi.
“Trattami come uno dei tuoi salariati… io ti servo
da tanti anni”: voglio un Dio a cui obbedire perché poi Lui
si senta obbligato ad obbedire a me. Dio non vuole servi inutili ma
figli.
“…. Questo tuo figlio… questo tuo fratello era
morto ed è tornato in vita”: non riconoscendo la paternità
di Dio non riconosciamo fratelli gli uomini accanto a noi. Poiché
figli possiamo camminare da fratelli incontro a Dio.