Comunità Una Rivarolo

Campo San Giovenale di Peveragno
giovedì 5-8-2010

Rimetti a noi i nostri debiti,
come noi li rimettiamo ai nostri debitori





Una premessa

Prima di tutto vorrei fare una breve premessa. Io non sono particolarmente competente in teologia, e le riflessioni che vi propongo oggi sono probabilmente poco convenzionali, almeno in parte. Però sono cose che sento. Quello che vi chiedo è di ascoltare tenendo presente quello che avevo detto lo scorso anno riguardo al discernimento dei propri pensieri. Non credete passivamente a quello che vi dirò, ma valutate nel vostro cuore. Se quello che vi dirò vi aiuta ad essere più vivi, ad avere più fiducia e determinazione nel vostro cammino verso Dio, se vi stimola a crescere nell’amore per gli altri... allora tenetelo come cosa preziosa, perché è in qualche modo una voce di vita che viene da Dio. Se invece vi ostacola, vi rende più paurosi, sospettosi, sfiduciati, divisi dagli altri, se in sostanza frena la vostra vitalità, allora buttatelo via: non viene da Dio.
 

Partiamo da come nasce il "Padre Nostro"

Detto questo, è importante cominciare la nostra riflessione di oggi osservando come nasce il Padre Nostro. Luca ci dice che uno dei discepoli chiese a Gesù “insegnaci a pregare” (Lc 11, 1), e Matteo riporta innanzi tutto il consiglio di non sprecare parole, perché il Padre sa di che cosa abbiamo bisogno ancora prima che glie lo chiediamo (Mt 6, 7-8). Il Padre Nostro è quindi il condensato di quello che Gesù, il Cristo, Dio fatto uomo, vuole che noi abbiamo a cuore.
Quindi, quando diciamo “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” dobbiamo assolutamente ricordarci che non è una richiesta ispirata dal nostro cuore, dal nostro bisogno di riconciliazione, ma è una richiesta che Gesù, Dio, vuole che facciamo. Sì, perché Dio vuole perdonarci, Dio ci chiama all’unità con lui. La parabola della pecorella smarrita, raccontata da Gesù, è uno dei passi dei Vangeli che lo dice chiaramente, ma possiamo ricordare anche “non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, sempre in Matteo (Mt 9, 13) e anche in Marco (Mc 2, 17) e Luca (Lc 5, 32). Dio vuole perdonarci, Dio si è fatto uomo ed ha accettato di morire in croce, per salvarci. Non dobbiamo dimenticarlo mai. Non dobbiamo mai dubitare che Lui ci perdoni. È da qui che dobbiamo partire per il nostro cammino: accogliere con gioia il suo amore infinito che ci cerca finché non ci trova e ci salva.
 

I nostri debiti, bersagli mancati

E allora guardiamo dentro a questa richiesta: “rimetti a noi i nostri debiti”. Cosa dobbiamo intendere per “debito”? Luca usa un termine greco, tradotto con “peccato”, ma che si può tradurre anche con “sbaglio” e che indicava un “tiro fallito”, un “bersaglio mancato” per i tiratori con l’arco. È importante, sapete, questa precisazione: il mio peccato è ogni bersaglio mancato, ogni tiro fallito... Per fare un paragone calcistico, il mio peccato è ogni palla non fermata in difesa, ogni passaggio sbagliato, ogni tiro fuori porta. Dio, il mio allenatore supremo, desidera che io sia un gran giocatore. Quando scopro che sono gramo, devo dire “perdona i miei bersagli mancati”.

Mi pare quindi necessario rivedere in estrema sintesi quali sono gli obiettivi che Dio ci dà, per capire quando li manco. Non mi sono scorso tutti i Vangeli per farne un lungo elenco, ma mi sembra che gli obiettivi di Dio siano sintetizzabili in breve. Il Capitolo 5 di Matteo, quello delle Beatitudini e del lungo elenco di “Avete inteso che fu detto... ma io vi dico...”, si conclude con “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Dio ci vuole “perfetti”: accetta tutti i nostri limiti e le nostre debolezze, ma ci vuole più in gamba possibile, vispi, tonici, frizzanti, uomini e donne realizzati pienamente. Dio ci vuole uomini e donne con un cuore grande, che sanno farsi prossimo di chi è in situazione di bisogno, come ci spiega Gesù stesso con la parabola del buon Samaritano (Lc 10, 30-37), che amano sempre e incondizionatamente, anche i nemici (Mt 5, 43-47).
Dio infine ci vuole felici e uniti, secondo la preghiera di Gesù prima della sua passione: “Rimanete nel mio amore. ... Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena ... Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. ... Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola” (Gv 15, 9-12 e Gv 17, 20-21).

Il mio peccato è ogni volta che manco gli obiettivi che Dio mi pone. Mi pare importante uscire da una visione moralistica del peccato per accogliere questa visione più ampia ma più stimolante, quella cioè di non essere come Dio mi vuole. Sapete, anche dal punto di vista psicologico questo è fondamentale, in qualsiasi campo di attività, da quello sportivo a quello del lavoro: se focalizzo l’attenzione su evitare gli errori e le colpe, facilmente sarò portato a diminuire le possibilità di sbagliare... riducendo al minimo la mia attività, evitando iniziative e responsabilità, mentre se focalizzo l’attenzione sul cercare di rispondere alle attese di bellezza poste su di me, cercherò di fare, accetterò iniziative e responsabilità, anche a costo di rischiare di sbagliare.

Non voglio certo stare ad elencare tutti i possibili modi di mancare il bersaglio, tutti i possibili peccati. Basta rileggersi alcuni brani, come quello del giudizio finale (Mt 25, 31-46), in cui i condannati chiedono “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito?”, per ricordarci che la mancanza di amore verso i piccoli bisognosi è il peccato più importante. Ma qui vorrei sottolineare qualche peccato più sottile.

Mi colpisce una frase di Gesù riportata da Marco (Mc 7, 20-22): “Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza”. Ho l’impressione che noi tutti sorvoliamo sull’ultima parola, stoltezza. Sembra quasi che, se sono stupido, non sia un peccato, se non faccio del male a nessuno. E invece, per Dio che mi vuole in gamba, la mia stupidità è anche quello un bersaglio mancato, come la dipendenza da tante sciocchezze nella mia vita, anche quando non faccio del male a nessuno.

E poi, ricordando la preghiera di Gesù nell’ultima cena, riportata in Giovanni e ricordata poco fa, manco di brutto il bersaglio quando non sono felice, quando cioè mi lascio prendere dalla tristezza, dalla sfiducia, dal pessimismo, dal vittimismo. E infine, ogni volta che siamo divisi, manchiamo collettivamente il bersaglio. Ogni volta che facciamo la distinzione tra “noi altri” e “voi altri”, tra noi e “quelli lì”, ogni volta che facciamo di tutto per non mescolarci con altri gruppi, in particolare con altri cristiani, ogni volta che serbiamo rancori. Penso che un grosso bersaglio mancato della comunità universale dei cristiani sia la divisione tra le chiese, visibile anche in piccoli dettagli come il non concelebrare l’eucarestia tra cattolici e anglicani, che pure condividono tutti i dogmi fondamentali della nostra fede.
 

Centrare il bersaglio è questione di vedere

Ritorniamo quindi all’inizio: se Gesù ci indica di chiedere al Padre di perdonarci i nostri bersagli falliti è perché ne sbagliamo sempre meno, vi pare? È perché rispondiamo sempre meglio ai sogni di bellezza che il Padre ha posto su di noi. Il re Davide, nel salmo 50 letto nelle lodi, mette una frase che secondo me è fondamentale: “Crea in me, o Dio, un cuore puro”. Capiva benissimo che il perdono dei suoi pur gravi peccati sarebbe servito a poco, se non ci fosse stato un corrispondente cambiamento del suo cuore.

Qui si apre dunque il grosso capitolo di come fare per andare in questa direzione. Centrare il bersaglio è questione di braccio forte e di mano ferma? Certo, anche. Ma, e questo vale molto di più per la vita spirituale, è soprattutto questione di vedere il bersaglio, di capire. Qualcuno potrebbe ribattere che noi sappiamo bene cosa dobbiamo fare, perché abbiamo i comandamenti, arricchiti dagli insegnamenti di Gesù. Ma le cose scritte, anche imparate a memoria, non bastano, sono solo “legge”. Occorre vivere, sperimentare, percepire. San Paolo si accalora molto sul tema della Legge che è del tutto inutile riguardo a rendermi capace di fare il bene; solo lasciandoci guidare dallo Spirito possiamo capire, vedere, agire.

E allora, per centrare il bersaglio, devo domandarmi: cosa si aspetta Dio da me? Quale è il suo progetto su di me? Cosa vorrebbe che io facessi in questo momento? È questione di consapevolezza. È questione di andare al di là di mille idee e concetti e pensieri e giudizi e schematizzazioni mentali, per arrivare a dire “ah, ecco!”, “ecco, ho capito”, “sì, questa è la cosa giusta da fare”. Gesù stesso sottolinea questa situazione di non consapevolezza, quando dice: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34) Nessuno che fosse consapevole di star mettendo a morte il Figlio di Dio, Dio lui stesso, sarebbe andato avanti a farlo. Poteva farlo solo chi pensava di mettere a morte un imbroglione e che questo fatto in fondo non fosse un vero male.... in fondo era un sovvertitore...

Questo ci deve da una parte confortare, nel senso che sappiamo che se manchiamo così spesso il bersaglio non è perché ci intestardiamo a fare il male, ma è perché non vediamo chiaro, siamo confusi da troppe indicazioni contrastanti, abbiamo scale di valori e metri di giudizio che non si accozzano insieme.... e il Signore lo sa bene. Ma dall’altra parte ci deve spingere a dire “no, voglio vederci più chiaro, voglio fare chiarezza in tutta questa accozzaglia di pensieri, di idee, di valori... voglio vedere meglio cosa vuole Dio da me”. Non posso accettare di mancare così spesso il bersaglio, perché tanto non ci ho colpa se non capisco... e che diamine! Se io sapessi che mio figlio malato può sopravvivere se imparo a fare le iniezioni, mi contenterei di dire “che colpa ne ho io se non so fare le iniezioni e non c’è nessun altro?”? Che diamine! Mi do da fare e imparo!!!! O se fossimo isolati in campagna, con la macchina che io non ho mai guidato, e lui ha un infarto, rinuncerei a provare a guidarla fino a che non trovo qualcuno, o mi direi “peccato che non so guidare: mio figlio è condannato a morire!”?.

Quindi, mi sembra proprio, l’impegno che il Signore ci chiede, anche attraverso questa riflessione, è di riprendere un cammino costante di crescita nella consapevolezza, se vogliamo anche per rendere vera la frase “sia fatta la tua volontà”. Che senso ha dirla se poi non cerco di vedere meglio quale è la sua volontà?
 

Per vedere: smontare!

In questo caso, però, come insegnano molti maestri di spiritualità, non si tratta tanto di fare, quanto semmai di disfare. Non è questo il momento di fare un discorso di crescita spirituale, che sarebbe troppo lungo, e che potrà essere approfondito nel tempo, se necessario. E qualche volta ho già fatto qualche considerazione in questo senso, presa prevalentemente dai corsi di spiritualità del gesuita Anthony de Mello. Ma la sintesi è proprio questa: innanzi tutto smontare tutto quello che ci impedisce di vedere con chiarezza. Ad esempio sradicare da dentro di noi le idee comuni che il mondo ci propone per la nostra felicità, come avere successo, realizzare sé stessi, essere approvati dagli altri, e in generale smontare l’idea che la mia felicità stia in situazioni al di fuori di me, soldi, lavoro, partner, salute. Smontare l’idea che la gioia equivalga ad avere belle emozioni, come euforia, piacere, divertimento, che sono invece come delle droghe, che lasciano poi il posto alla depressione. Smontare le false idee sull’amore, del tipo “se tu mi amassi faresti così e cosà” e cominciare a capire che sono invece io che pongo aspettative sugli altri, forse incompatibili con la realtà, e che anche gli altri possono porre aspettative su di me che io non riuscirò a soddisfare. Smontare il mito dell’importanza di avere io ragione, senza accettare che altri possano avere le loro ragioni o, al limite, che semplicemente abbiano visto le cose meno chiaramente di me. Smontare le etichette che appiccico a persone o situazioni, le classificazioni preconfezionate, che non mi fanno vedere la complessità delle cose, sentimenti, condizionamenti culturali ed economici.

Basta! Smontare tutto e cominciare a guardare con occhi nuovi, osservare noi stessi e gli altri senza voler subito dare un giudizio. Di fronte a una mia reazione potrei chiedermi “a quale voce rispondo?” “è una reazione mia o è il frutto di idee che ho sempre avuto e che vengono da altre persone?”. Se, ad esempio, quello che dice una persona mi infastidisce, potrei chiedermi cosa c’è sotto, se c’è qualcosa di me che viene messo in discussione, se ho paura di perdere qualcosa, di rimetterci nelle mie comodità, o nelle cose che ho, o nel prestigio. Lo stesso potrei farlo per i moti interiori di soddisfazione, cercando di capire se c’è sotto una voglia di primeggiare, di essere vincente. E allo stesso modo potrei cominciare a osservare i comportamenti degli altri, ad esempio intuendo, dietro a un atteggiamento negativo, la presenza di una situazione di frustrazione, di paura, di bisogno deluso.
 

Vedere, essere consapevoli: vivere adesso

Si tratta di smettere di identificarsi con la propria mente che non fa altro che ribollire, giudicare, rimpiangere il passato o rammaricarsi di esso, programmare il futuro e creare attese o, peggio ancora, paure e ansie. Si tratta di smettere di identificarsi con le proprie emozioni, in particolare col dolore vissuto, con le delusioni e le sfortune del passato. Se io mi identifico col mio dolore, non riuscirò mai ad uscirne, perché perderei il mio senso di identità. Invece noi siamo qualcosa di molto più profondo; il nostro vero essere è al di sotto di tutte le vicende, è nel profondo, è in unione con Dio.

E questo mio essere lo trovo vivendo nel momento presente. Può sembrare ovvio, ma non lo è. Oppure può sembrare difficile, ma credete che è la cosa più importante. Non devo vivere prevalentemente nel passato, che non esiste: quello che considero “il passato” è la traccia di memoria di un momento presente precedente. Ora non c’è, o, se volete, non c’è più. E non devo neppure vivere prevalentemente nel futuro, che non esiste, ma è solo un momento presente immaginato, è solo ipotetico e facilmente non sarà mai come lo pensiamo. Occorre certamente usare la nostra mente pensante, per capire il passato e per pianificare un minimo il futuro, ma occorre ugualmente impedire che la mente rimugini continuamente su passato e futuro, su quel che è stato, quel che non è stato, quel che poteva essere, quel che potrebbe essere, quel che temiamo che sia, quel che vorremmo che fosse... questo continuo rimuginare ci impedisce di vedere, di capire, di essere consapevoli della vita dentro di noi.

Guardate, questo non è solo un pensiero esoterico, di filosofie lontane. Varie volte Gesù ha più o meno direttamente sottolineato questo: “per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? ... Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6, 25-34). E ha detto anche: “Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio” (Lc 9, 62). Il guaio è che diamo troppo poco ascolto a questi insegnamenti!

Occorre quindi ragionare di meno e percepire di più, per essere vivi dentro. Cominciando dalle cose più semplici e banali, come percepire il sole addosso o il freddo, percepire lo stormire delle foglie di un albero e il canto degli uccellini, percepire il suono dei piatti mentre apparecchio tavola. Questo è il primo passo per essere sempre più presenti e consapevoli.

Occorre soprattutto permettere al momento presente di essere quello che è, senza rifiutarlo, per vivere pienamente. Certo, se mi trovo in una brutta situazione cercherò di uscirne; se sono caduto in un rovo vedrò dove posso aggrapparmi per tirarmene fuori o vedrò se c’è qualcuno da chiamare per aiutarmi. Ma l’importante è di accettare che il momento presente è così, senza “se avessi fatto così e cosà...”, “se quella persona avesse fatto così e cosà...”. Accetto semplicemente che ora è così e agisco, ora, concentrandomi nel momento presente, anche per cambiare la situazione, se questo è possibile.

E se far tacere la mente sembra troppo difficile, c’è un’altra scappatoia, quella di osservare la mia mente che rimugina, percepire le mie emozioni, notare le mie reazioni. Nel momento in cui osservo, senza identificarmi con ciò che osservo, non sono più intrappolato nei pensieri e nelle emozioni, me ne tiro fuori, sviluppo in me una presenza consapevole.
 

Ricapitolazione

Credo di avervi bombardato abbastanza e dover andare alla dirittura d’arrivo, riassumendo queste ultime cose. Sentire i suoni, l’aria, il proprio corpo che si muove... Cogliere i movimenti del cuore, rammarichi, ansie, paure, desideri... e osservarli come dall’esterno, evitando di identificarci con essi, specie col dolore... Togliere potere al rimuginare continuo della mente che giudica, valuta, pianifica, si illude e si delude... Vivere intensamente il momento presente, sfumando il valore del passato, rimpianti, nostalgie, rammarichi, e quello del futuro, paure, ansie, sogni... Tutto questo ci permetterà di essere più presenti, più consapevoli, di capire meglio. Ci resterà più facile cogliere il valore del brano di Vangelo letto oggi, così come il valore dei consigli di San Paolo: “Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4, 31-32), e anche “Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!” (Col 3, 12-15).
Togliere importanza al passato e al futuro porta automaticamente ad una maggiore facilità di perdono degli altri, ma anche di me stesso. Smetto di rodermi a quello che potevo essere, perché l’importante è che, qui, ora, io sono. Perché, sapete, Dio vuole che noi ci rendiamo conto di mancare così spesso il bersaglio, ma non vuole assolutamente che continuiamo a nutrire sensi di colpa. Vuole che andiamo avanti, che cresciamo nel suo amore, e basta. L’ultimo versetto del brano di Abacuc letto nelle lodi di oggi lo dice in termini poetici: “Il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle alture mi fa camminare” (Ab, 3, 19). Il Signore vuole che camminiamo sicuri sulle alture dello spirito, non che trasciniamo stancamente i nostri piedi sui marciapiedi, rasentando i muri. Affidandoci a Lui possiamo farcela!
 

Due esercizi da fare a casa, con calma

Per concludere, vi propongo due esercizi di preghiera da provare quando siete nel momento giusto, quando avete tempo, forse domani stesso qui al campo, o magari al momento opportuno a casa, in camera vostra. Sono entrambi presi dal libro Sàdhana di Tony de Mello. Il primo si chiama “Liberazione dal risentimento”, ed è adatto soprattutto ai momenti in cui vi sentite covare dentro della rabbia nei confronti di qualcuno. Il secondo si chiama “La preghiera di lode”, ed è adatta a qualunque momento, ma soprattutto quando, guardando indietro nella vostra vita, vi sentite di aver mancato un po’ tanti bersagli. Provatela. Non è facile, ma credetemi che è potente. Ve li allego in un foglio che ho preparato a parte. Buona preghiera, buon cammino di consapevolezza.


Esercizio 20
LIBERAZIONE DAL RISENTIMENTO


 
 
Veleno che intossica la nostra vita fisica, emotiva, spirituale - Esternarlo e volerlo dimenticare - Falsa indulgenza e mitezza 
copertura di codardia  - Mettersi al suo posto - Neutralizzare le mie aspettative - Gesù crocifisso e perdonante.

Il non voler perdonare gli altri per torti, reali o immaginari, da noi subiti, è un veleno che mina la nostra salute fisica, emotiva e spirituale. Si sente dire: "Posso perdonare, ma non posso dimenticare" o "Vorrei perdonare ma non ci riesco". Questo spesso significa che non si vuol perdonare. Vogliamo crogiolarci nella soddisfazione che ricaviamo nutrendo il risentimento. Impediamo che questo si affievolisca. Pretendiamo che l'offensore riconosca la sua colpa, ci chieda scusa e faccia ammenda, come condizione per rinunciare al risentimento e disintossicarci da questo veleno.

Oppure, si può provare un desiderio genuino di lasciar andare il risentimento, eppure esso continua a bruciare dentro, perché non si è mai avuta l'occasione di esternarlo e non si è mai cercato di dimenticarlo. Un desiderio autentico di perdonare non è un sostituto al bisogno di trovare una qualche liberazione dalla nostra rabbia e dal nostro rancore, almeno nella fantasia.

Ritengo inutile dichiarare che i risentimenti deliberatamente coltivati sono la morte della contemplazione.

Ecco un modo per liberarvi dai risentimenti che state cullando:
 

Innanzitutto, generalmente aiuta cercare di dimenticare il risentimento. Per questo, immaginate di vedere di fronte a voi la persona verso la quale provate rancore.

Dite a lui/lei il vostro sdegno, esprimendo la vostra rabbia con tutta la forza possibile. Non controllatevi nella scelta dei termini! 

Potrebbe addirittura essere utile uno sfogo esteriore con espressioni fisiche, come il prendere a pugni il cuscino o il materasso.

Ci sono persone che collezionano risentimenti semplicemente perché sono troppo paurose per essere forti. E perciò rivolgono contro se stesse la fermezza che giustamente dovrebbero dimostrare verso gli altri. L'indulgenza e la mitezza, se praticate da persone troppo paurose per parlare chiaro e per sostenere con fermezza ciò che ritengono giusto, non sono virtù, ma una copertura per la codardia.
 

Dopo aver espresso tutto il vostro risentimento, ma solo dopo, considerate l'intero incidente, che vi ha causato il risentimento, dal punto di vista dell'altra persona. Mettetevi al suo posto: come appare l'incidente attraverso gli occhi di lui/lei?

Rendetevi conto che non si ferisce per malizia. Anche ammessa l'intenzione di ferire, questa è il risultato di una erronea interpretazione della realtà o di un'infelicità profonda dell'altro. Le persone veramente felici non sono sgarbate.

Inoltre, è molto probabile che non siate voi personalmente il bersaglio dell'attacco altrui. Ha inconsciamente proiettato qualcosa (o qualcun altro) in voi, che ora procede ad attaccare.

Vedete se tutte queste considerazioni vi portano a provare compassione piuttosto che risentimento - dopo aver sputato fuori l'ira dal vostro petto...

Se tutti questi sforzi falliscono, è molto probabile che siate il tipo di persona che, inconsciamente ma attivamente, lavora a collezionare ferite e risentimenti. E' strano ma vero che spesso la gente crea realmente situazioni in cui saranno insultati ed offesi e, dopo aver ricevuto ciò che essi stessi si sono preparati, si regalano i sentimenti di astio che desideravano!

Riuscirete a superare questa vostra tendenza neutralizzando le vostre aspettative nei confronti degli altri. In altre parole, abbiate pure le vostre aspettative, se volete esprimetele anche agli altri, ma lasciateli completamente liberi essendo ben chiaro che non c'è nessun obbligo da parte loro di soddisfarle dal momento che sono vostre e non loro; questo vi eviterà tutte le cattive sensazioni che si provano quando viene delusa un'aspettativa. Molti si portano una scheggia nella carne lungo tutta la vita: nei loro rapporti con gli altri partono da un assunto implicito: "Se veramente mi amassi tu avresti... evitato di criticarmi, parlato gentilmente, ricordato la data del mio compleanno, fatto quel favore che chiedevo, ecc. ecc.". Per questo tipo di persone è molto difficile capire che tutte queste loro aspettative possono non aver nulla a che fare con un amore genuino da parte dell'altro.

Infine, per rafforzare la vostra decisione di farla finita col vostro risentimento (questo è il segreto: volete realmente farla finita e proseguire con la vita e con le relazioni? O siete una di quelle persone che si tengono dentro il risentimento e si lamentano di non potersene liberare?) provate a fare quello che segue:
 

Immaginate di vedere Gesù sulla croce... Prendetevi tutto il tempo necessario per dipingerlo con vividi dettagli...

Ora passate alla scena del vostro risentimento. Soffermatevi su di essa per un po'. Ritornate a Gesù crocifisso e fissatelo di nuovo...

Continuate alternando l'avvenimento che ha causato il vostro risentimento e l'immagine di Gesù sulla croce... fino a quando vi accorgerete che il risentimento si sta eclissando e sentirete la libertà e la leggerezza di cuore che ne conseguono.

Non vi stupite se i sentimenti di rancore ritornano dopo un po'. Affrontateli pazientemente. Per molti il sacrificio insito nel rinunciare a sentimenti negativi e diventare felici è troppo grande per concentrarlo tutto in un breve esercizio!


Esercizio 47
LA PREGHIERA DI LODE


 
 
Lodare e ringraziare Dio per ogni singola cosa, perché nulla accade che non sia previsto da Dio - Ringraziarlo anche per i nostri peccati 
Pace e gioia - San Paolo - Favorisce indolenza e fatalismo? Piuttosto un'eccessiva repressione di giusti risentimenti 
Fortuna? Sfortuna?" Chi lo sa?”

Se dovessi scegliere la forma di preghiera che ha reso più reale la presenza di Cristo nella mia vita che mi ha dato la sensazione più profonda di essere circondato e sorretto dalla amorevole provvidenza di Dio, senza esitazione sceglierei questa, l'ultima forma di preghiera che vi propongo in questo libro: la preghiera di lode. La sceglierei anche per la grande pace e la gioia che mi ha così spesso arrecato nei momenti di desolazione.

La preghiera di lode consiste, molto semplicemente, nel lodare e ringraziare Dio per ogni singola cosa.
E' basata sulla certezza che nulla accade nella nostra vita che non sia previsto e pianificato da Dio - assolutamente nulla, nemmeno i nostri peccati.

E' chiaro che Dio non vuole i peccati. E' chiaro che egli non voleva il più grande di tutti i peccati, l'uccisione di Gesù Cristo. Eppure la Scrittura, in modo assolutamente sconvolgente, ci ripete più e più volte che la passione e la morte di Gesù erano scritte e bisognava passarci. Anche san Pietro lo conferma nel suo primo discorso, la mattina di Pentecoste (Atti 2,23): "Dopo che , secondo il disegno prestabilito e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l'avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l'avete ucciso". Quindi l'assassinio di Cristo era previsto e rientrava nel piano salvifico di Dio.

E' ovvio che il peccato è qualcosa che dobbiamo odiare ed evitare. Eppure, dopo il pentimento, noi possiamo lodare Dio anche per i nostri peccati, perché anche da essi egli sa trarre il bene. E' per questo che la Chiesa, in un'estasi d'amore, canta nella liturgia pasquale, nell'antichissimo preconio della notte del Sabato santo: "Oh felice colpa! Oh veramente necessario peccato di Adamo!". E san Paolo dice esplicitamente ai romani: "Laddove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia. Che diremo dunque? Continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia? E' assurdo!" (Romani 5, 20; 6,1-2).

E' una cosa che con difficoltà osiamo pensare: ringraziare e lodare Dio perfino per i nostri peccati! E' giusto che ci pentiamo dei nostri peccati. Eppure, fatto questo, dobbiamo anche imparare a lodare Dio per essi. Se Erode e Pilato si fossero convertiti, certamente si sarebbero pentito del ruolo avuto nella Passione. Ma poi avrebbero anche lodato Dio per aver realizzato la morte e risurrezione di Cristo utilizzando precisamente questo ruolo.

Quante persone passano la vita trascinandosi un peso di colpa per i peccati commessi. Uno di loro mi disse del suo profondo senso di colpa, non per i peccati, dei quali era certo d'esser stato perdonato, bensì per il fatto che era arrivato alcuni minuti in ritardo al letto di morte di suo padre. Non gli riusciva assolutamente di liberarsi da questo senso di colpa, per quanti sforzi facesse. Quale sollievo e pace provò quando fu capace di ringraziare e lodare Dio esplicitamente per esser arrivato tardi al letto di morte del padre! All'improvviso percepì che tutto era bene, tutto era nelle mani di Dio, Dio poteva utilizzare in qualche modo anche questo e anche da questo avrebbe ricavato qualcosa di buono...

Ora provate voi stessi questo esercizio:
 

Pensate a un avvenimento che vi sta causando dolore o desolazione o frustrazione o senso di colpa... 

Se in qualsiasi modo ne siete colpevoli, esprimete al Signore il vostro dolore e il vostro pentimento...

Ora ringraziate esplicitamente Dio per esso, lodatelo per quanto è accaduto... Ditegli che voi credete che anche questo entra nel suo piano su di voi e così egli saprà trarne un gran bene per voi e per gli altri, anche se non riuscite a vedere questo bene...

Affidate alle mani di Dio quest'avvenimento, e tutti gli altri della vostra vita, passati, presenti, futuri, abbandonatevi alla pace e al sollievo che questo vi apporta.

Tutto questo è strettamente coerente con gli insegnamenti di san Paolo ai cristiani: "Siate sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie" (1 Tessalonicesi 5,16-18). "Intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore, rendendo continuamente grazie a Dio Padre per ogni cosa, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo" (Efesini 5,19-20). "Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù" (Filippesi 4,47).

Alcuni temono che il lodare Dio per ogni cosa possa condurre a una sorta di indolenza e di fatalismo. E' una difficoltà più teorica che pratica. Chiunque abbia praticato con sincerità questo tipo di preghiera sa bene che bisogna fare da parte nostra ogni possibile sforzo per fare il bene ed evitare il male, e soltanto allora lodiamo Dio per il risultato, qualunque esso sia.

L'unico pericolo che vedo in questa forma di preghiera non è il fatalismo, ma la repressione di ogni emozione spiacevole. Spesso è necessario provare sensi di dolore o rabbia o frustrazione, prima di ringraziare Dio e aprire il nostro cuore alla gioia e alla pace che quest'atteggiamento di lode porta con sé.
Questa pace e gioia diventeranno una disposizione quasi abituale in noi, nel mentre ci abituiamo a lodare e ringraziare Dio costantemente. Mentre prima saremmo stati tesi e preoccupati per tutti i contrattempi della vita, anche i più piccoli (un treno in ritardo, il tempo cattivo, un'osservazione fuori luogo in una conversazione), ora facciamo con calma quel che possiamo da parte nostra e tutto il resto lo lasciamo gioiosamente nelle mani di Dio, certi che ogni cosa riuscirà bene, anche se in superficie non pare che sia così.

Una storia cinese narra di un vecchio contadino che possedeva un vecchio cavallo per coltivare i suoi campi. Un giorno il cavallo scappò su per le colline e ai vicini che consolavano il vecchio contadino per la sua sfortuna, questi rispondeva: "Sfortuna? Fortuna? Chi lo sa?".
Dopo una settimana il cavallo tornò, portando con sé dalle colline una mandria di cavalli selvatici, e questa volta i vicini si congratulavano col contadino per la sua fortuna. Ma la sua risposta fu: "Fortuna? Sfortuna? Chi lo sa?".
Poi accadde che suo figlio, mentre cercava di domare uno dei cavalli selvatici, cadde, rompendosi malamente una gamba. Tutti pensarono che si trattasse veramente di una grande sfortuna. Non il contadino, la cui unica reazione fu: "Sfortuna? Fortuna? Chi lo sa?".
Qualche settimana più tardi, l'esercito entrò nel villaggio, imponendo a tutti i giovani abili la coscrizione obbligatoria: quando videro il figlio del contadino con la sua gamba rotta lo lasciarono stare. Questa fu un fortuna? Una sfortuna? Chi lo sa?

Ogni cosa, che ci appare alla superficie un male, può essere un bene travestito. E ogni cosa che ci appare come bene a prima vista, potrebbe essere realmente un male. Perciò siamo saggi se lasceremo decidere a Dio cos'è fortuna e cosa non lo è, e se lo ringrazieremo perché tutto concorre al bene di coloro che lo amano ("Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio": Romani 8,28).

Anche noi allora condivideremo un po' di quella meravigliosa visione mistica che ebbe Giuliana di Norwich nel pronunciare la frase più dolce e consolante che io abbia mai letto: "Ma Gesù... mi rispose: "Il peccato è inevitabile" (cfr. Matteo 18,7: "[E' inevitabile che avvengano scandali"], ma tutto sarà bene, e tutto sarà bene, e ogni specie di cosa sarà bene" (Libro delle Rivelazioni (Apocalisse), 13a rivelazione).

"Prendi e ricevi, Signore, tutta la mia libertà,
 la mia memoria, il mio intelletto
e tutta la mia volontà:
tutto ciò che ho e possiedo.
Tu me lo hai dato: a te, Signore, lo rendo.
Tutto è tuo: disponi a tuo piacere.
Dammi solo il tuo amore e la tua grazia,
e questo mi basta".

(Esercizi spirituali, n. 234.)