Mi piace però aggiungervi la premessa, un po' diversa, che ne fa Luca al Cap 11, nei versetti 1-2:
1 Gesù
si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli
gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai
suoi discepoli». 2Ed
egli disse loro: «Quando pregate, dite: ...
|
In questa premessa è un discepolo che chiede a Gesù di insegnare loro a pregare... e del resto, se lo aveva fatto Giovanni... Ma
perché, non sapevano come pregare, non avevano gli "strumenti"? Avevano
ad esempio i salmi, che sono praticamente tutti preghiere, di lode, di
richiesta di aiuto, di richiesta di perdono, di ringraziamento, di
richiesta di guida... ma forse non sembravano abbastanza efficaci per
entrare in contatto con Dio. I discepoli avevano visto Gesù che si
ritirava in preghiera e molto probabilmente notavano in lui qualcosa di
diverso quando tornava... Qual'era il suo segreto? Come essere efficaci
nella preghiera? Da qui la richiesta al loro rabbì.
Farei
qui però una prima digressione, sul tema della preghiera. Ripenso a
quando Gesù dice ai discepoli che tornano dalla loro prima missione di
annuncio della Buona Notizia "Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po'".
Stare un po' in disparte con Gesù e riposarsi in lui non è forse già
questo preghiera? Sì, stare un po' con lui è l'essenza della preghiera.
E se riuscissimo a vedere i momenti di preghiera come momenti di riposo
e non come momenti di impegno!!!! Se ad esempio una casalinga o un
lavoratore autonomo, a metà mattina o a metà pomeriggio si dicesse "ora mi voglio riposare 10 minuti" e dedicasse 10' a stare in silenzio alla presenza di Gesù... io sono convinto che il contatto con Dio funzionerebbe bene!
Torniamo
al brano di Matteo. Gesù aveva detto, subito prima, di NON fare come
gli ipocriti che amano pregare in modo da essere visti, ma di pregare
nel segreto della propria stanza, dove solo Dio ti vede. Ora aggiunge
di non stare a fare tanti discorsi, di non sprecare parole, perché il
Padre sa già di cosa abbiamo bisogno. E invece di fare una lunga
lezione su come pregare, suggerisce semplicemente una serie di
atteggiamenti con cui rivolgersi al Padre, di desideri da coltivare e
dai quali far illuminare la vita di tutti i giorni. Li vedremo ora più
in dettaglio, per ridare vita ad una preghiera che, essendo nota,
rischia di scivolarci addosso con troppa facilità.
Io prima però aggiungerei un atteggiamento #0, pensando a quanto Gesù dice alla Samaritana: "Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità". Dio è spirito, è soffio, e nessuno lo conosce ("Perché nessuno ha visto il Padre, se non colui che è da Dio; egli ha visto il Padre",
Gv 6,46)... e già questo ci dice di mettersi davanti a Dio in massima
umiltà, senza pretendere di conoscerlo... Metterci davanti a Lui "in spirito e verità". Questa espressione ha certamente significati di alta teologia troppo alti per me, ma io voglio leggerlo come mettersi davanti a Dio con tutto il nostro vero essere, con tutto il nostro spirito, il nostro "software", sentimenti, inclinazioni, paure, senza mettersi delle maschere, senza atteggiarsi a quello che pensiamo di dover essere: Dio ci conosce per quelli che siamo, nel profondo, meglio di come ci conosciamo noi...
Padre nostro, che sei nei cieli Dio
nessuno lo conosce, se non il Figlio. Nell'Antico Testamento Dio viene
chiamato con tanti appellativi, l'Altissimo, l'Eterno, il Santo,
l'Onnipotente, il Terribile. Gesù ce lo svela come Padre, anzi, più
confidenzialmente come Abbà, Babbo, Papà, e per la preghiera ci
suggerisce proprio di metterci davanti a Dio come Padre/Madre. E
"nostro", per di più, cioè di tutti. Che tipo di padre? Non c'è
alcun dubbio: come il padre della parabola del padre misericordioso.
Che potremmo anche chiamare il padre disgraziato, quello che aveva due
figli che non si sentivano figli. Il primo che chiede la sua parte di
eredità, come se il padre fosse già morto. E se ne va di casa a fare il
gaudente. E quando torna, perché si ritrova alla fame, chiede di essere
trattato come uno dei servi... Ma il padre lo fa rivestire e mettere
l'anello al dito, come deve essere per un figlio. E il secondo che fa i
musi e accampa rivendicazioni: "non mi hai mai dato nemmeno un capretto per fare festa". Nemmeno lui si sente figlio; aveva sempre visto il padre come il datore di lavoro! Ma il padre lo supplica: "tutto ciò che è mio è tuo". Dio ci vuole figli, non servi.
E questo è l'atteggiamento che suggerisce Gesù. È una cosa grande
poterci rivolgere a Dio come a un papà che ci capisce e ci ama! Ma noi
ci sentiamo figli? Siamo contenti di avere un Padre così, che pur
amandoci di un amore infinito non risolve i problemi con la bacchetta
magica ma chiede a noi di collaborare a sistemare le cose nella nostra
casa comune? E ci sentiamo fratelli con gli altri uomini e donne, anche
se hanno la faccia diversa e abitudini diverse? Dio ci vuole figli, e quindi fratelli tra noi!
Sia santificato il tuo nome Sì,
con questa espressione Gesù ci chiede di desiderare che la santità di
Dio, la sua grandezza, il suo amore infinito, sia sentita da noi stessi
e riconosciuta da ogni persona. Di conseguenza questo ci impegna a non
usare il nome di Dio per nostri fini personali o per fini di potere
(come esempio semplice e "familiare", dire a un bimbo "se non fai così
Gesù si arrabbia") e a non storpiare in qualsiasi modo il nome di Dio e
la sua immagine: ad esempio ogni volta che lo facciamo apparire come
fazioso, un Dio che sta dalla parte della nostra nazione e schifa gli
altri suoi figli, non lo facciamo apparire bene, non lo santifichiamo.
Ogni volta che lo dipingiamo come vendicativo, non lo santifichiamo.
Ogni volta che, pur proclamandoci credenti in Dio, ci litighiamo per
interesse, freghiamo gli altri in un contratto o nel commercio,
facciamo le scarpe ai colleghi di lavoro, puntiamo il dito contro i
"diversi", siamo incapaci di perdonare anche un piccolo torto subito...
non è che gli facciamo fare una bella figura davanti ai non credenti, e
soprattutto alle persone in ricerca di una fede! Venga il tuo regno Gesù ci chiede di desiderare che venga il Regno di Dio, o Regno dei cieli, quello che lui è venuto ad annunciare: "Gesù andava attorno per tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e predicando la buona novella del regno"
(Mt 4,23). Si potrebbe andare avanti per ore a tentare di spiegare cosa
si debba intendere per Regno di Dio. Gesù stesso non ha dato
definizioni, ma solo esempi... "Il
regno dei cieli è simile... a un granello di senape... al lievito... a
un tesoro nascosto... a un re che fece un banchetto di nozze per suo
figlio..." o al padrone della vigna della parabola degli operai
dell'ultima ora, esempi da accogliere senza eccessivi ragionamenti,
ossia senza prenderli alla lettera ma cogliendone il "profumo". Il
Regno di Dio va accolto, in sostanza, con il cuore di un bimbo: "Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso" (Mc 10,15). Mi piace anche ricordare la frase di Gesù in risposta ai farisei: "Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!" (Lc 17,21). Il
Regno di Dio è in mezzo a noi ogni volta che prevale lo Spirito di Dio,
ogni volta che viviamo come fratelli e sorelle, ogni volta che tra noi
c'è solidarietà, attenzione, amore, comprensione, perdono. San Paolo dice anche lui qualcosa al riguardo: "Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo" (Rm 14,17). Quindi, con l'espressione "Venga il tuo Regno", Gesù
ci invita a desiderare che si instauri tra noi questo modo di vivere,
che lo chiediamo al Padre e che, di conseguenza, ci mettiamo l'impegno
che riusciamo a metterci per essere noi stessi costruttori di questo
regno, costruttori di giustizia, costruttori di pace... e in fondo
costruttori di gioia!
Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra Certamente
dobbiamo evitare di dare all'espressione "Sia fatta la tua volontà" il
significato che molto spesso le si dà nel linguaggio comune, che è
quello di accettare
le difficoltà, le malattie o le disgrazie che "il Signore ci manda".
Prima di tutto il Signore non ci manda difficoltà, disgrazie o
malattie: è la vita che include queste cose, e molte volte a causa dei
comportamenti umani. Pensare che queste cose siano "volontà" di Dio è
già togliere santità al nome di Dio! Ma anche se lo intendessimo come
accettare tutto quello che la vita ci dà, senza pensare che sia voluto
da Dio, l'espressione sarebbe molto riduttiva, perché indicherebbe
comunque un atteggiamento passivo. Gesù invece ci chiede di avere atteggiamenti attivi! Gesù ci chiede di desiderare la volontà del Padre, di cercarla, di farla. Gesù ci chiede fatti, non parole: "Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli" (Mt 7,21-23). Ma cosa vuol dire, allora, "fare la sua volontà"? Questo
desiderio che Gesù ci chiede di avere, di esprimere al Padre e di
coltivare, riprende chiaramente il precedente sul Regno. Desiderare
quindi che anche sulla Terra si realizzi la volontà del Padre,
compiutamente come avviene nei cieli, nel mondo dello spirito;
desiderare quindi che la vita sulla Terra diventi un'anticipazione di
quella del cielo. Ma desiderare soltanto è ancora poco: dobbiamo
cercarla, la sua volontà, e provare a farla nel nostro quotidiano. E
questo non può solo significare non fare del male, obbedire ai dieci
comandamenti, ma essere costantemente attenti a capire cosa il Signore ci chiede, ora, in questo momento, nella mia situazione... e cercare di farlo.
Avere un'attenzione piena di fiducia, perché quello che il Padre ci
chiede di fare è la cosa migliore, sia per il pezzetto di mondo intorno
a noi che per noi stessi. Il Dio che ci ha rivelato Gesù è
assolutamente il Dio della Vita, e ogni ispirazione che ci viene da Lui
tende ad un maggior livello di vita, per noi e gli altri.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano Nella
seconda parte del "Padre Nostro", Gesù ci indica quattro desideri,
quattro invocazioni o richieste per noi stessi e per i nostri fratelli.
La prima richiesta riguarda il "pane quotidiano", i nostri bisogni
materiali. Ma il modo con cui Gesù ci suggerisce di pregare per i
nostri bisogni materiali ci dice varie cose: 1) chiediamo il pane, cioè l'alimento di base per il nostro corpo, con un chiaro invito alla sobrietà, a non desiderare il superfluo; 2) il pane è quotidiano,
quello che mi basta per la giornata, come avveniva nell'attraversamento
del deserto da parte degli ebrei, quando Jahvè mandava la manna che era
sufficiente a sfamare per un giorno: Gesù quindi ci invita a desiderare
che il Padre ci aiuti nelle nostre necessità di ogni giorno, non a
cercare di accumulare beni; 3) il pane lo chiediamo al Padre,
riconoscendo che ogni cosa che abbiamo è dono di Dio, anche se noi ci mettiamo lavoro e sudore per ottenerla; 4) il pane è nostro, non mio, e quindi la preghiera si apre nuovamente alla fraternità universale.
Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori Luca
nel suo Vangelo usa un termine greco, tradotto con "peccato", ma che si
può tradurre anche con "sbaglio" e che indicava un "tiro fallito", un
"bersaglio mancato" per i tiratori con l'arco. È interessante questa
precisazione: il mio peccato è ogni bersaglio mancato, ogni tiro fallito... Questa
richiesta che Gesù ci suggerisce presuppone la nostra consapevolezza di
avere dei "debiti", e non solo di aver fatto talora cose che sapevamo
essere sbagliate, contrarie all'amore, cattiverie verso gli altri, ma
in generale di non avere fatto tutto alla perfezione, di esserci
impegnati poco, di aver preso male la mira. E se pensiamo alle parole
di Gesù "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena",
manchiamo il bersaglio anche quando ci lasciamo prendere dalla
tristezza, dalla sfiducia, dal pessimismo, dal vittimismo! Il Padre ci
vuole vispi, vivaci, attivi, gioiosi, fraterni: a noi sta rendersi
conto di riuscirci poco e di rivolgerci a lui perché ci aiuti. E c'è da notare anche che quando chiediamo al Signore il perdono
dei nostri debiti, non lo facciamo di nostra iniziativa, non è una
richiesta che nasce dal nostro bisogno di riconciliazione, ma è Gesù che ci dice di farlo: il Padre non aspetta altro che di abbracciarci
e dirci "Figlio mio!". Quindi non dobbiamo mai dubitare che Lui ci
perdoni, ma dobbiamo accogliere con gioia il suo amore infinito che ci
cerca finché non ci trova e ci salva. Infine "come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori".
È scontato, nell'ottica dell'insegnamento del Cristo, chiederci di
essere disposti a perdonare. Pensiamo solo alla parabola cosiddetta
"del servo spietato", quello che non condona un piccolo debito ad un
servo come lui, dopo aver visto il suo grossissimo debito condonato dal
re: "Non dovevi forse anche tu aver
pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? E, sdegnato,
il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse
restituito tutto il dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a
ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello" (Mt 17,33-35). Il Dio rivelato da Gesù è il Dio dell'amore, che non vuole divisioni e ci vuole fratelli, pronti a perdonarci. E se poi guardiamo bene, anche questa richiesta al Padre Gesù l'ha formulata al plurale: chiedo che non sia rimesso solo il mio debito, ma quelli di tutti. È ancora un ribadire che la preghiera apre alla fraternità, che davanti al Padre non ci si mette come figli unici. Infine, se andiamo ben a vedere, questo è anche un insegnamento spirituale a beneficio di noi stessi, e quindi anche una bella notizia! Gesù ci dice che non siamo condannati ad accumulare rancori verso chi ci ha offeso,
così come i rimpianti e i rammarichi verso noi stessi: questi sono
sentimenti negativi che affossano la vita del nostro spirito, che
uccidono la gioia, che creano una resistenza interiore a ciò che esiste
nel momento presente e ci impediscono di cogliere gli innumerevoli doni
di vita che riceviamo ogni momento. Ogni giorno perdonare gli altri e
noi stessi, vivere intensamente il momento presente, respirare a pieni
polmoni e camminare leggeri, senza pesantezze che ci frenano e
schiacciano a terra!
E non abbandonarci alla tentazione La
traduzione nuova adottata dalla CEI (in realtà di dieci anni fa)
corregge una stortura della traduzione precedente, dove si usava il
verbo "indurre" che non corrispondeva neppure al verbo latino
"inducere". In Latino inducere indica un lasciar entrare, mentre in
Italiano indurre indica uno spingere, un farlo apposta, che è
assolutamente una bestemmia: Dio non ci può tentare, tanto per vedere
se rispondiamo positivamente o no. Ma a vedere bene, anche "non
lasciarci entrare nella tentazione", come hanno tradotto i francesi, è
poco convincente, perché tentare significa provare e la tentazione è
una prova, un trovarsi a dover scegliere. E nella vita non ci sono solo
le grandi prove o le grandi tentazioni, come trovarci davanti alla
proposta di un forte e facile guadagno illecito o subire dei grossi
torti che ci spingono ad una vendetta. Ci troviamo invece ogni momento a dover scegliere:
"mia mamma mi ha chiesto di andarla a trovare domani, ma avrei da fare;
ci vado o rimando ancora?"; "mio figlio l'ha combinata grossa, ma se lo
metto in punizione salta l'idea di andare al cinema oggi pomeriggio:
quasi quasi ci passo sopra...". E poi c'è la tentazione della sfiducia quando le cose non vanno bene, la tentazione di smettere di lottare per recuperare una relazione incrinata, la tentazione di tirare i remi in barca e chiudersi nel proprio guscio... La vita ci mette inevitabilmente alla prova, ci costringe tutti i giorni a scegliere: non possiamo evitare le prove! L'invito
di Gesù è quello di riconoscere che, senza l'aiuto del Padre, le nostre
scelte non è scontato che siano per il maggior bene, ma facilmente per
il nostro maggior comodo, e quindi di chiedere al Padre che non ci
abbandoni mai e ci faccia fare le scelte giuste, quelle che innalzano
il livello di vita nostro e di chi ci sta intorno.
Ma liberaci dal male In conclusione, Gesù ci invita a riconoscere che il male esiste, e che solo il Padre ce ne può liberare, specie se parliamo del male che è dentro di noi, quello di cui parla Gesù: "Dal
di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni
cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità,
inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte
queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo"
(Mc 7,21-23), ma anche il male che aleggia sulle collettività, ad
esempio quando spinge gruppi o anche intere popolazioni ad
atteggiamenti di razzismo, di persecuzione o di guerra verso altri
popoli o etnie. Gesù ci
chiede l'umiltà di riconoscerci deboli di fronte al male dentro di noi
e fuori di noi, ma anche di essere vigilanti, fiduciosi che "Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio" (Lc 18,27).
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