Domenica 27 settembre 2020

Incontro di Comunità di inizio anno 2020-2021 presso S.O.C. di Trasta

«Tutti fratelli per guarire il mondo!»


Benvenuti a tutti! Carissimi amici, fratelli e sorelle di Comunità Una, è davvero bello vederci qui, insieme attorno alla mensa, alla Parola di Dio, in fraternità.

Ci rivediamo dopo molti mesi in cui la nostra vita è cambiata, ci rivediamo senza la possibilità di riabbracciarci, senza poter stringere le nostre mani per sentire il calore del contatto fisico del fratello e della sorella, e anche con una certa ansia, ma soprattutto siamo qua con ancora in cuore la tristezza per le persone perdute in questo tremendo periodo; in particolare vorrei ricordare e dedicare questo nostro primo momento di ritorno alle attività a Renzo.

Quando ci siamo visti in Segreteria si è pensato di fare una riflessione sulla recente e attuale esperienza legata alla pandemia. Perché parlarne? Perché questa è la vita oggi, perché questo è un momento di sofferenza, di ansia, di angoscia, ma perché è anche una opportunità di conversione.

Per questo incontro è stato veramente difficile prepararsi, perché quando prepari una catechesi su un testo biblico hai di fronte a te già le risposte e devi solo confrontarle con la tua vita, in modo da poterti convertire, poter cambiare e seguire la via che il Signore ti indica. Invece è dura partire da sole domande, come avevo io. E quando ho chiesto al Gruppo di Servizio che mi aiutassero a mettere in piedi la riflessione mi hanno posto altre domande invece che risposte. E devo comunque ringraziare i fratelli e le sorelle di comunità perché hanno contribuito a creare ulteriori stimoli. Quante domande sul perché sia successo tutto questo, quante riflessioni su quanto stiamo vivendo, tra cui la riapertura delle scuole e le prime comunioni che dovremmo avere a Bolzaneto sabato prossimo ma con incognite dovute ad alcune situazioni critiche, quanta curiosità su cosa ci aspetterà nel prossimo futuro. Mi sono stati proposti tanti titoli molto significativi, ma ho voluto prendere le parole del vescovo di Roma, unica autorità politica e morale capace di tenere la barra del timone dritta verso il Vangelo per creare il titolo “Tutti fratelli per guarire il mondo!”.

Eh sì, anche se personalmente questo incontro l’ho aspettato per molti mesi, arriva comunque con qualche settimana di anticipo: sabato prossimo, infatti, papa Francesco firmerà ad Assisi, dopo aver celebrato una messa privata nella basilica, la sua terza enciclica “Fratelli tutti”. Magari sarà Francesco che coglierà spunti, ascoltando questo nostro incontro, per il suo documento che credo sarà molto importante... In realtà in questi mercoledì (dal 5 agosto a mercoledì scorso) papa Francesco ha sviluppato una serie di catechesi di riflessione sulla pandemia che aveva come titolo “Guarire il mondo!”. Allora ho messo insieme queste cose, “Tutti Fratelli”, enciclica sulla fraternità e l'amicizia sociale, e “Guarire il Mondo”, per fare “Tutti fratelli per guarire il mondo”, perché il problema è in sostanza uno solo. Il papa dice che ci sono due pandemie, una è quella dovuta a questo subdolo virus che distrugge la vita di tante persone, anche di quelle che lo superano, ma l'altra è quella di un altro virus che dobbiamo combattere, quello che sta nel cuore dell'uomo e nella società.

Quando ho pensato a questo incontro mi è venuto subito a mente il brano del Vangelo di Luca che troviamo all'inizio del capitolo 13 e che ora leggiamo:

(Lc 13,1-5): In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo

Il brano di Vangelo che vi ho proposto mette già ben in evidenza quello che mi pare essere il senso di ciò che è accaduto in questi mesi ed il senso del nostro percorso di cristiani, seguaci di Cristo nei prossimi. A Gesù vengono riferiti due fatti drammatici, uno frutto della violenza umana e del sopruso, l’uccisione da parte dei Romani di alcuni Galilei che stavano portando le loro offerte al tempio, mentre l’altro viene ricordato da Gesù stesso riguardava la morte di diverse persone a causa di un evento fortuito, il crollo di una torre. Al centro di queste domande vi era l’idea teologica fortemente presente nella teologia ebraica, la “teologia della retribuzione” per cui Dio premiava o puniva gli uomini a seconda delle loro azioni. Già Giobbe aveva cercato di trovare una risposta alternativa a questa idea che aveva in sé qualcosa di tremendo: come posso pensare ad un Dio che è amore se poi lo descrivo come giudice inesorabile nei confronti dell’uomo, non solo nel giudizio finale, ma già qua sulla terra? Anche nella Chiesa, oggi, c'è il rischio di vivere con questo tipo di idea in testa: quante volte sentiamo cristiani che si domandano “che cosa ho fatto per meritarmi questo?”. Questa è un'idea anti-evangelica: Dio non è quel giudice inesorabile che troppe volte immaginiamo, ma una Madre per la quale “ogni scarrafone è bello a mamma soja”, come dicono a Napoli, una madre che ama incondizionatamente ed ama ogni suo figlio, ogni sua creatura. Quindi dobbiamo innanzi tutto convertire la nostra idea di Dio, da giudice e padrone a padre/madre. Come diceva oggi don Claudio nella sua omelia, la vigna in cui il padre mi manda a lavorare non è solo la sua ma è anche la mia; non sono un servo ma un socio, anzi, figlio.

Gesù offre una lettura diversa di queste vicende, chiedendo una svolta positiva nella vita non di quanti erano defunti in quei fatti tremendi, ma di coloro che ora vivi guardavano a quei fatti. Papa Francesco, nelle catechesi sulla pandemia delle udienze generali del mercoledì che ricordavo in precedenza, ha più volte espresso un concetto che credo debba essere centrale nel prossimo nostro futuro: “La pandemia è una crisi e da una crisi non si esce uguali: o usciamo migliori o usciamo peggiori”. Ecco l'idea di Gesù: “se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”, cioè rimarrete tutti nel vostro peccato. C'è una possibilità di cambiare vita, di cambiare strada e bisogna prenderla questa nuova strada!Gli slogan “Andrà tutto bene!” oppure “Tornerà tutto come prima!”, che in parte ci hanno aiutato a vivere e ci aiutano tutt’ora a vivere questo periodo, possono essere consolatori ma non hanno nulla di cristiano. Ci chiediamo davvero “tornerà tutto come prima?”; Gesù ci dice: “Io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo!”.

Mi piacciono anche le parole di Mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, che a maggio, in una lettera a tutti i fedeli della diocesi, diceva che “quella che stiamo vivendo non è una parentesi” e che “tornare come prima è una bestemmia”. “Questo tempo parla, ci parla. Questo tempo urla. Ci suggerisce di cambiare. La società che ci sta alle spalle non era la «migliore delle società possibili».

Ieri: è arrivato il mostro!

Ho quindi provato a ripercorrere questo periodo per cercare di capire come la mia vita si può convertire. Il primo pensiero corre a quei giorni di lockdown in cui siamo stati costretti a chiuderci nelle nostre case, ricordo le conferenze stampa, la lettura dei DPCM. Ricordo ancora nitidamente quel sabato 15 marzo quando ero sceso in paese a Manesseno per recuperare alcune medicine alla farmacia e mi sono trovato davanti la Guardia di Finanza con i mitra che controllava ogni automobile che entrava ed usciva da Sant’Olcese, perché non si poteva andare da un comune all'altro, e allora ho capito la serietà della situazione.

Quanto ho patito l’impossibilità di vedere e di incontrare le persone care, ma anche il fatto di non poter andare a scuola e incontrare i ragazzi ma sentirli soltanto via computer e anche la fatica di non poter celebrare insieme l’eucaristia. Ripenso poi a quelle lunghe ore passate di fronte alla televisione o sui siti internet: quanti pensieri, quante immagini tremende passate sotto i nostri occhi! Mi sono ritornate in mente in questi giorni le carovane dei camion militari che dal cimitero di Bergamo portavano via i corpi verso forni crematori in altre province italiane, i volti tumefatti di medici ed infermieri sfiniti da estenuanti turni di lavoro, fino alle immagini di un uomo anziano e solo che, nel deserto di piazza San Pietro, abbracciava una croce, segno di una umanità nuovamente crocifissa, ma aperta alla speranza della resurrezione.

Ripenso ai termini nuovi, tremendi per ogni uomo ma soprattutto per chi vuole tentare di essere un discepolo di Cristo, come ad esempio “distanziamento sociale”, che sono diventati slogan mandati a memoria, ripetuti alla nausea per dare forza, per autoconvincerci che quella strada assolutamente disumana era la strada giusta, l’unica per uscire da quel momento, da questo momento che stiamo ancora vivendo. Distanziamento sociale, una contraddizione in termini: come può stare insieme la parola distanziamento dalla parola sociale che indica l’unione, lo stare insieme? Un distanziamento sociale fondato su quel motto “Distanti, ma uniti!”.

Poi i flash mob, le canzoni urlate dai balconi come una sorta di valvola di sfogo che hanno contribuito a rafforzare l’impegno, darsi un coraggio che i numeri quotidiani del bollettino della Protezione Civile mettevano alla prova e poi gli amici che ci lasciavano rendevano quei numeri ulteriormente e significativamente più vicini.

E poi ripenso agli slogan: “Distanti ma uniti - andrà tutto bene - io resto a casa”, slogan che hanno impattato sulla reazione delle persone. La propaganda ha cercato di indirizzarci nella fiducia che, pur stando lontani fisicamente, avremmo saputo esserci vicini di cuore.

E infine ricordo, come rovescio della medaglia, le immagini satellitari della Cina o della Lombardia liberate dalla cappa di smog, un respiro per l’ambiente ma anche l'indicatore del fatto che tante persone non lavoravano più ed erano senza stipendio.

Oggi: la crisi è ancora vicino a noi!

In questi mesi lentamente siamo ripartiti, siamo tornati a viaggiare, a rivedere i volti a noi più cari, hanno seppur lentamente riaperto le attività economiche, e siamo anche tornati a celebrare la messa insieme. Questo ritorno alla normalità forse ci ha fatto dimenticare quanto avevamo passato nei mesi scorsi, ci ha fatto pensare che fosse tutto finito e diverse persone, soprattutto i nostri ragazzi, hanno abbassato la guardia come se tutto fosse passato. E invece il virus è ancora qua, al nostro fianco!

E allora oggi, che non siamo ancora fuori dalla pandemia ma almeno possiamo incontrarci all'aperto, si aprono alcune questioni delicate a cui si deve dare una risposta, e la prima è: libertà o responsabilità? Come dobbiamo posizionarci? Io noto, e non mi stupisco però tanto, che sempre più persone passino tra le file dei cosiddetti negazionisti, quelli che dicono “il Covid non esiste”, o credono comunque che il problema non sia così impellente e grave. E intanto noi a scuola dobbiamo forzare, e non ne avremmo per niente voglia, i ragazzi ad essere dei bravi robot, a stare per ore al banco con la mascherina, senza potersi abbracciare e correre come farebbero normalmente. Quale scelta fare? Ci sono politici che dicono “io mio figlio a scuola con la mascherina non ce lo mando, perché con la mascherina sta male”, trascurando il fatto che è senza la mascherina che rischia di fare stare male gli altri. Questo è il problema: io sono responsabile del mio fratello, sono custode della sua vita. Caino, quando Dio gli chiede di Abele, risponde “sono forse io custode di mio fratello?”. La risposta cristiana, quella dei discepoli di Gesù Cristo, è “sì, sei custode di tuo fratello!”. I primi angeli custodi sono i tuoi fratelli e le tue sorelle che custodiscono la tua vita, la tua salute. Per questo il rispetto delle regole per evitare il contagio è fondamentale, specie per il cristiano!

Ma è anche vero che questa crisi ha tolto le nostre maschere e spesso ha tirato fuori il peggio di noi, ha spazzato via sentimenti fasulli e liberato pulsioni fin qua tenute più o meno nascoste. Dal rispetto delle regole siamo passati all'intolleranza e al sospetto, come stare a guardare se un vicino va a fare la spesa più volte nella giornata o gridare contro uno che corre in strada, anche se rispetta tutte le regole di distanziamento. Noi penso che non l'abbiamo fatto, ma in giro si sono visti diversi episodi del genere.

E poi c'è la domanda a cui non abbiamo dato una chiara risposta è: cos'è importante, l'economia o la salute pubblica? Se sono vere le cose che si dicono di quanto successo ad Alzano Lombardo e a Nembro, che hanno chiuso il Pronto Soccorso ma non le attività lavorative, ci chiediamo perché l'han fatto, per far guadagnare qualcuno? Questi paesi hanno avuto decine e decine di morti in più di quelle solite, a causa del ritardo nell'adozione delle misure necessarie a prevenire il contagio! E oggi pare quasi che il problema fondamentale del paese sia riaprire gli stadi, altrimenti le nostre squadre perdono soldi. Ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando?

Il governo ha provato a mettere una pezza alla situazione economica, con i famosi 600€, e qui è saltato fuori un altro virus, quello della corruzione. Abbiamo assistito addirittura a parlamentari che, continuando a prendere lo stipendio da parlamentare (che non è poco!), hanno ottenuto i 600€ destinati a chi veramente era senza lavoro!

Un'altra domanda: Sanità pubblica o privata? La migliore sanità italiana, quella lombarda, che è prevalentemente gestita da privati, orientata all'eccellenza ma non alla medicina di base, è crollata difronte a questa malattia. Il nostro accompagnatore nel pellegrinaggio a Verona del 2018, Paolo, che è un medico di base, affermava che bisogna fare medicina tra la gente, fare soprattutto prevenzione. E forse è per un pensiero di questo tipo che il Veneto, governato dallo stesso partito politico della Lombardia, se l'è cavata meglio in questa situazione. Questa è quindi una questione non secondaria, se abbiamo a cuore il bene e la vita delle persone.

Domani: tutti fratelli per guarire il mondo

Il papa questo ci dice per il domani: “tutti fratelli per guarire il mondo”. Questo è il titolo dell'enciclica che verrà firmata sabato prossimo. Il sottotitolo è “sulla fraternità e l'amicizia sociale”, a sottolineare che l'enciclica è destinata a tutti: se i cristiani si considerano fratelli, i laici o non credenti possono comunque considerarsi amici.

Ci sono due virus, dice Francesco, i virus microscopici che colpiscono il corpo e i grandi virus dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza di opportunità, della emarginazione e della mancanza di protezione dei più deboli. Noi cristiani, in particolar modo, siamo chiamati a combattere tutto questo.

Siamo chiamati a guardare a Cristo, a costruire il regno con opere di carità per abbracciare la speranza e rafforzare la fede. Fede, speranza e carità sono molto più che sentimenti o atteggiamenti, ma sono doni che ci guariscono e che ci rendono guaritori. In questo modo potremo guarire in profondità le strutture ingiuste e le pratiche distruttive che ci separano gli uni dagli altri, minacciando la famiglia umana e il nostro pianeta; insomma una guarigione fisica e spirituale, tutto insieme, frutto di un incontro personale e sociale.

Il papa dice in sostanza che l'unico messaggio che può salvare il mondo è il Vangelo e richiama alcuni punti molto importanti, i fondamenti della dottrina sociale della Chiesa:

  • il principio della dignità della persona: siamo tutti fratelli, tutti figli di Dio, credenti e non credenti, cristiani e non cristiani, praticanti e non praticanti. Da qui bisogna partire, da considerare l'altro non come un oggetto ma come un fratello.

  • il principio del bene comune che supera il mio bene personale e non solo riguardo alla salute, che non è solo la somma dei beni individuali ma è l'opportunità di vivere ciascuno la sua felicità.

  • il principio dell’opzione preferenziale per i poveri e cioè, in questo momento, il battersi perché il vaccino sia pubblico, per tutti. In questo l'Europa ha fatto fin'ora un buon lavoro, operando perché il vaccino che sarà prodotto sia pubblico e per comprarne dosi sufficienti, e non solo per gli Europei.

  • il principio della destinazione universale dei beni: il vaccino o sarà per tutti o non sarà un vaccino valido, perché impedirà sì al virus di continuare a diffondersi nei paesi ricchi, ma ucciderà l'anima.

  • il principio della solidarietà, della sussidiarietà cioè dell'aiuto reciproco ma anche di lasciare a ciascuna persona la responsabilità di imparare a camminare sulle proprie gambe.

  • il principio della cura per la nostra casa comune, dell'ambiente oltre che della persona. Se non sappiamo curare l'ambiente non saremo in grado neppure di essere attenti alle persone.

Concludo questa parte tornando su episodi di intolleranza e sospetto che anche noi abbiamo vissuto di persona, come quello di genitori dei bambini di prima comunione che volevano allontanare una bambina handicappata perché più incline a toccare gli altri bambini e quindi potenzialmente più soggetta a prendere e trasmettere il virus. Roba da caccia agli untori dei Promessi Sposi! E poi il puntare il dito contro i migranti risultati positivi, anche se in numero esiguo, e in genere una “caccia all'untore”, specie quando “non è dei nostri”. Il virus ci sta uccidendo l'anima, tirando fuori da dentro di noi il peggio! Ecco cosa vuol dire “se non vi convertite perirete tutti allo stesso modo”! Perirete perché siete marci dentro! Muoio perché non sono capace di avere una vita solidale, fraterna con gli altri! L'unica cura che abbiamo è la fraternità, è il sentirci parte di una stessa avventura, di una stessa vita!

E allora, in definitiva, cosa dobbiamo fare? Non lo so bene, ma di sicuro dobbiamo capire i segni dei tempi. Con tutte le nostre poche possibilità, dobbiamo essere molto attenti perché da questa crisi si esca migliori, più fratelli, più solidali, più amici, e per tutti, non solo per pochi. Papa Francesco lo ha detto che da una crisi non si esce come prima, ma o si esce migliori o peggiori, e noi dobbiamo fare di tutto per uscirne migliori, sia a livello individuale che come società, impegnandoci nei nostri ambienti.

La Chiesa, comunità dei credenti

Un'ultima riflessione riguarda la vita ecclesiale. Le regole per contenere la pandemia ci hanno tenuti lontano dalla partecipazione di persona all'eucarestia per tutta la Quaresima e quasi tutto il tempo di Pasqua, il tempo che riguarda l'evento fondamentale della nostra fede, la morte e la resurrezione di Gesù. E tante persone per la paura del contagio non sono più andate, forse giustamente.

Credo che sia importante, come comunità cristiana, come discepoli di Cristo, riflettere su cosa vuol dire “celebrare” l'eucarestia. A me questo periodo è servito moltissimo: proprio il silenzio ha reso questo tempo una opportunità (Kairos) aiutandomi a fare memoria non solo dell’opera della salvezza in Gesù, ma anche di tutte le meraviglie che quotidianamente mi offre il Signore della vita e aiutandomi a cogliere anche le caratteristiche della mia fede, del mio modo di rapportarmi anche in modo nuovo con il Dio Amore, per celebrare le sue meraviglie sulla mia e nostra vita familiare e sociale.

Nel periodo della chiusura totale in effetti ho “partecipato” molto di più del solito alla messa, anche se solo per televisione, ma quasi tutti i giorni ascoltando la messa del papa. E mi sono chiesto “che cos'è per me l'eucarestia?”. Qualcuno nota che i primi cristiani si incontravano nelle case, a piccoli gruppi, come potremmo essere oggi noi qua. E ancora mi domando: “che cosa siamo a celebrare noi nell'eucarestia?”. Ricordo a tale proposito in modo vivido le parole di papa Francesco del 17 aprile nell'omelia a santa Marta, in una messa con solo un paio di sacerdoti che erano con lui e un paio di suore: “l'eucarestia senza popolo non è eucarestia”, e queste sono sicuramente parole che pesano, dette dal papa al centro della messa! E ha poi aggiunto: “questa non è Chiesa.”.

Nell'intervento di papa Francesco io vedo una importante pro-vocazione, una chiamata ad una vera e propria conversione, una metanoia, un andare “oltre la nostra mente” per non conformarci al mondo, rinnovando il modo di pensare per poter discernere la volontà di Dio (cfr. Rm 12,2 ).

Allora credo che sia fondamentale per noi prendere coscienza che o la messa la celebriamo anche noi, assieme al sacerdote che la presiede, oppure non è messa, non siamo chiesa, non siamo comunità. Ho realizzato cioè l'importanza di vivere l’eucaristia come celebrazione della storia della salvezza universale e personale lodando Dio per tutto ciò che ha fatto per me, per il suo popolo e per tutti.

Occorre rompere una certa rigidità di cuore anche nell’interpretazione della legge e nelle regole della liturgia, in cui devo fare quelle cose lì, in quel modo lì, dicendo quelle parole lì perché altrimenti non è messa; la rigidità ci allontana dal vangelo di Gesù, ci toglie la libertà perché è più importante seguire le regole o le nostre interpretazioni delle regole che andare incontro a Gesù. La rigidità è una sicurezza per me stesso, mentre la fedeltà è un dono di Dio che ci spinge ogni giorno a rinnovarci secondo la libertà dello Spirito. La cosa importante è che non è messa se non c'è una comunità che la celebra, non è messa se io prete me la dico da solo. Abbiamo a questo proposito anche la testimonianza dei preti che conosciamo meglio, i quali hanno manifestato il loro disagio a celebrare la messa da soli o solo con il vice-parroco, anche se potevano farlo: “sento la mancanza del corpo di Cristo che è il popolo”, diceva il parroco di Bolzaneto.

Di fronte a questa situazione ci sono due pericoli: il primo è quello dello gnosticismo, di una fede “fai-da-te”: “ho imparato che posso fare a meno del prete; il pane me lo faccio io e possiamo mangiare in famiglia il pane della fraternità”. Il secondo pericolo è l'opposto: “non possiamo celebrare perché non c'è il prete”. Lo potremmo chiamare “clericocentrismo”, perché tutto ruota attorno a quella persona.

La fede è certamente una scelta da vivere interiormente e personalmente, ma occorre non dimenticare mai che essa è pure dono ricevuto da Dio e trasmesso a ciascuno di noi dalle sorelle e dai fratelli che ci hanno preceduti: questo io intendo soprattutto quando parlo di fede apostolica, perché voglio impormi di riconoscere da dove viene questa fede! La nostra fede è sì un proclamare “io credo”, detto in prima persona, ma detto in coro, assieme al fratello o alla sorella che ho vicino, risultando così in un “noi crediamo”. Se lo dico da solo non ha un valore di comunità, e la fede cristiana è comunitaria, altrimenti è intimismo... e queste non sono parole mie ma sono parole del papa che nella predica del 5 maggio dice che bisogna avere una familiarità con Dio, bisogna essere famiglia. Io da solo col mio Dio non vado da nessuna parte. Ci devo andare con i fratelli. “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”.

Nel periodo della chiusura ho sofferto, insieme a tutti voi, soprattutto intorno ai giorni di Pasqua, l’assenza non tanto della comunione sacramentale, che ho sostituito con quella spirituale, ma della comunione con tutto il popolo di Dio nel suo esodo verso la libertà, della comunità in cammino dietro al suo Pastore. E come dicevo prima, ho ritrovato in diversi fratelli preti e anche in Francesco, fratello e padre, vescovo di Roma, lo stesso sentimento di mancanza dell’incontro costante con la comunità perché la familiarità, l’intimità con il Signore è sempre comunitaria, personale sì ma in comunità.

Ancora oggi, ritornati alla celebrazione comunitaria sento la fatica di questi momenti: mascherine, guanti, distanziamento sociale sono termini che contraddicono l’esperienza dell’eucaristia, memoriale comunitario dell’amore di Dio. Mi mancano tremendamente gli abbracci al termine delle celebrazioni eucaristiche con la comunità, mi manca sentire l’affetto, che si esprime in gesti concreti, di chi con te affronta con i propri limiti e i propri pregi il pellegrinaggio su questa terra e non vedo l’ora di potervi riabbracciare per poter celebrare davvero insieme le meraviglie di Dio sulla mia e nostra vita. Sento ancora, al momento dello scambio della pace, la fatica di non poter dare la mano alle persone vicine e invece mi devo accontentare di uno scambio di sguardi da sotto la mascherina!

Per concludere aggiungo a queste mie riflessioni ancora alcune parole di Mons. Derio Olivero, vescovo di Pinerolo, non tanto incentrate sulla celebrazione eucaristica quanto sulla vita ecclesiale in generale. Il vescovo, rivolto ai fedeli della sua diocesi, a metà maggio, quando lui stesso era in via di guarigione dal Covid, scrive: “Non dobbiamo tornare alla Chiesa di prima. O iniziamo a cambiare la Chiesa in questi mesi o resterà invariata per i prossimi 20 anni”. “Non voglio più una Chiesa che si limiti a dire cosa dovete fare, cosa dovete credere e cosa dovete celebrare, dimenticando la cura le relazioni all’interno e all’esterno. Abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza delle relazioni all’interno, tra catechisti, animatori, collaboratori e praticanti. Abbiamo bisogno di creare in parrocchia un luogo dove sia bello trovarsi, dove si possa dire: ‘Qui si respira un clima di comunità, che bello trovarci!’”. Tra i sogni elencati da mons. Olivero c'è quello di comunità che non siano “chiuse, ripiegate su se stesse e sulla propria organizzazione, ma comunità aperte, umili, cariche di speranza; comunità che contagiano con propria passione e fiducia”. “Non una Chiesa che va in chiesa, ma una Chiesa che va a tutti, carica di entusiasmo, passione, speranza, affetto. Credenti così riprenderanno voglia di andare in chiesa. Di andare a messa, per nutrirsi. Altrimenti si continuerà a sprecare il cibo nutriente dell’Eucarestia”.

Ecco, siamo corpo di Cristo, ognuno con la propria vocazione ed il proprio ministero nella costruzione del Regno, non dimentichiamolo mai!!!

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