Domenica 1 dicembre 2019

Riflessione di Graziella Merlatti per l'Avvento 2019
nella prima domenica di Avvento anno A

«Vigilate!»


Grazie per quest'invito che mi ha “costretto” nelle settimane passate a fare il punto e a vivere meglio e più profondamente questo tempo di Avvento, così prezioso e così importante.

Una brevissima Premessa:

L’Avvento è un tempo liturgico tipico dell’Occidente. L’Oriente ha solo una breve preparazione di pochi giorni al Natale, perché la festa delle feste è la Pasqua. Non sappiamo con certezza, andando a cercare nella storia, quando è nato l’Avvento. C'erano due pratiche, nei primi secoli, una che faceva precedere i giorni del Natale da digiuni e penitenze, e un'altra da preghiere liturgiche che esprimevano un'attesa orante del Natale.
I filoni della preparazione al Natale che hanno iniziato l'Avvento come lo concepiamo noi ora sono due, uno che puntava alla memoria storica dell'evento della nascita di Gesù in Palestina e l'altro come attesa della venuta finale del Signore (avvento escatologico). Per i primi cristiani era viva l'attesa del ritorno del Signore a giudicare l'umanità intera, alla fine dei tempi, ma poi, andando avanti, si sono accorti che questo ritorno non era immediato, per cui quest'attesa del ritorno finale del Cristo si è fatta meno pressante.
Il Concilio Vaticano II ha scelto di conservare ambedue i caratteri, con una precisa focalizzazione. Dalla prima domenica di avvento al 16 dicembre è sottolineato il secondo aspetto, quello della venuta finale, orientando i credenti all’attesa della venuta gloriosa di Cristo. Dal 17 al 24 invece la liturgia è focalizzata sul mistero dell’Incarnazione, sulla nascita del Messia nella Storia, in terra di Palestina.
L’unità dei due momenti è data dalla lettura quasi quotidiana di Isaia, perché in lui, più che negli altri profeti, si trova una eco della grande speranza che ha confortato il popolo eletto durante i secoli duri e decisivi della sua storia. Le sue parole sono un annuncio di speranza incrollabile per l’umanità di tutti i tempi: Dio viene nelle pieghe e nelle piaghe della nostra vita e della storia del nostro tempo.

Ma come viene a noi? Veniamo alla liturgia di oggi, prima domenica di Avvento. Mi sono soffermata soprattutto sul Vangelo di oggi, quello di Matteo al capitolo 24 (Mt 24,37-44):
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Questo è forse è il giudizio più severo uscito dalla bocca di Gesù. Indica una totale anestesia, la chiusura di tutti i sensi. Come quando si è in sala operatoria, o si dorme. Se non ci si accorge di nulla come si potrà cogliere la venuta del Figlio dell’uomo?

Agli occhi del Signore siamo gente che “non si accorge di nulla” (Mt 24, 39). Se non ci si accorge di nulla non ci si accorge neanche del Signore che viene, nel tempo, nella Storia e nella nostra vita. Quello che accadeva al tempo di Gesù accade anche ai giorni nostri. La routine quotidiana ci distoglie dall'attenzione alle cose profonde, vere, quelle interiori, della nostra vita e della nostra storia, e del Signore che dentro la Storia e dentro la nostra vita viene ogni giorno. Quelle azioni della vita quotidiana sono  di per sé azioni necessarie e onorabili, danno senso alla vita, risvegliano l’attenzione verso la ricchezza della realtà; tuttavia agli occhi di Gesù possono essere praticate come un sedativo che tranquillizza, ma spegne; calma, ma non pacifica.  Se non ci si accorge di quanto potremmo vedere, come riusciremo ad accorgerci di Dio che non si vede?

La buona notizia dell’inizio di questo Avvento è che il Figlio di Dio viene “come un ladro” (Mt 24, 43). Il Signore si descrive non solo con le immagini rassicuranti del buon pastore o del buon samaritano, ma anche a quella per niente piacevole del ladro, come ben sa chi si è trovato la casa scassinata. Egli è un ladro che viene a scassinare la casa della nostra vita. Arriva all’improvviso, eludendo ogni difesa del padrone di casa. Il ladro sa trovare le cose preziose nonostante gli stratagemmi per nasconderle (anche utilizzando sensori speciali per localizzare l'oro o le banconote). Per fortuna il Signore usa a nostro beneficio le capacità del ladro; perciò riuscirà a portare alla luce i tesori che per paura abbiamo nascosto e nemmeno ricordiamo di possedere. Come l’amico più gentile, Cristo sta alla porta e bussa, aspettando che gli si apra (Ap 3, 20). Ma se intuisce che la nostra casa sta diventando impenetrabile, egli entra come un ladro, abile a scansare allarmi e scassinare serrature; sicuro di trovare un tesoro prezioso e necessario, da portare alla luce per il bene di tutti.
La metafora è spiazzante, ma Dio, in Gesù, viene come un ladro che non ruba niente ma ci dona tutto. Ci dà la consapevolezza di ciò che noi abbiamo e che non sappiamo riconoscere. Ci dona sé stesso, in lui il Regno irrompe nella storia: è presente tra noi. Il Signore è venuto, viene e verrà. È venuto nella Storia, viene oggi e verrà alla fine, alla fine della nostra vita e alla fine dei tempi.
Noi, oggi, abituati ad un tempo velocizzato, a fare tutto di corsa, non riusciamo più a cogliere il valore dell'attesa. . L’attesa è sentita come tempo morto, una perdita di tempo. L’attesa invece è lavoro spirituale che prepara il futuro, il domani, l'attimo successivo, anticipandolo, facendoci restare consapevoli di fronte a ciò che sta avvenendo, sperandolo, invocandolo. L’attesa è una soglia tra oggi e domani, tra tempo ed eternità, tra la storia in cui viviamo e il Regno di Dio. Nell’attesa il futuro già abita il presente, almeno nel nostro spirito, e opera cambiamenti già nel presente, qui e ora.

Gesù in questo brano si rifà alla narrazione presente in Gen 6,5-7,24. La generazione dei contemporanei di Noè non è descritta né come malvagia né come empia, ma solo come incosciente, inconsapevole. I contemporanei di Noè “mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito” e in questo non vi è nulla di reprensibile. E non vi è nemmeno se vi aggiungiamo ciò che esplicita Luca nel passo parallelo: “compravano, vendevano, piantavano, costruivano” (Lc 17,28). Si tratta della quotidianità, delle attività vitali quotidiane di ogni persona, di cose che sono da fare, senza alcun dubbio. Il problema non è il che cosa, ma il come. Con il parallelo del diluvio, Gesù mette in guardia a non annegare nella banalità di un orizzonte cieco, cioè a non guardare solo davanti al proprio naso ma anche un pochino più in là, più dentro alla nostra vita. L’annotazione che i contemporanei di Noè “non si accorsero di nulla” (Mt 24,39), che è soltanto di Matteo, mette il dito sulla piaga della non vigilanza, e dunque dell’irresponsabilità.
Pensiamo ad esempio al pianeta. Facciamo tante cose ma non ne facciamo alcune che sono molto importanti, non piantare alberi, lasciare le luci accese, sprecare energia, usare più di quanto ci è necessario, ecc. La non vigilanza vuol dire non farsi carico di cose vere e buone che sono attorno a noi e di cui noi siamo responsabili; senza farci colpe inutili, dobbiamo prevenire, vigilare, agire.

Secondo i midrashim, cioè i commenti esegetici ebraici (che io trovo interessantissimi), che interpretano il racconto del diluvio, Noè era sbeffeggiato, deriso e giudicato pazzo dai suoi contemporanei perché compiva un’opera insensata, che gli altri non capivano. Si dice che essi ponevano domande irridenti a Noè chiedendogli che bisogno avesse di ciò che stava costruendo, che cosa avesse in testa, e non si rendevano conto che erano loro stessi che ne avevano bisogno, perché chi restò fuori dell'arca fu travolto dal diluvio. Noè seppe discernere il suo presente e così salvò se stesso e il futuro: il discernimento dell’oggi salva il futuro: “Per mezzo di Noè un resto sopravvisse sulla terra quando venne il diluvio”, come ci dice il Siracide (Sir 44,17). Lo sguardo di Dio, di cui Noè è messo al corrente, vede ciò che la situazione presente di benessere e di tranquillità, prepara. Dio, e con lui Noè, vede al di là del momentaneo, di quello che ha davanti al naso. La follia, o il genio, o la santità, o forse un po’ di tutte e tre queste cose portano Noè a compiere un gesto coraggioso che salverà il futuro, ma che lo porta ad affrontare l’incomprensione e il disprezzo, come sempre avviene a chi vede al di là del quotidiano, del presente, o vede ciò che quel presente tiene in serbo per il futuro o vede in che cosa si convertirà quel presente.

Anche noi, come Noè, siamo chiamati ad essere attenti, superando l'incomprensione e il disprezzo. Cosa possiamo fare noi oggi per salvare la Terra? Ce lo possiamo chiedere, anzi, ce lo dobbiamo chiedere, perché di Terra ce n'è una sola, e ne siamo tutti corresponsabili. Sembra che abbiamo solo dei pazzoidi a governare il mondo, ma ci sono anche milioni e milioni di persone che pensano, riflettono e coltivano saggezza. Allora bisogna in qualche modo mettere insieme queste risorse e fare in modo di cambiare, di fare come Noè, di fare un'arca per traghettare verso il futuro, perché con questo ritmo nel giro di 50 anni chi sarà sulla Terra avrà gravissime conseguenze sulla vita, tra le terre che si troveranno sott'acqua e le situazioni di inquinamento. Occorre agire e velocemente: il Signore ci ha dato la Terra perché la coltiviamo e la custodiamo, non perché consumiamo le sue risorse in maniera folle, sia per la conservazione delle risorse stesse sia, e soprattutto, per il modo in cui lo facciamo, sfruttando in maniera assurda, a livello di schiavismo, le persone più povere e i bambini, come quelli che estraggono il coltan con le mani nelle miniere. Questo ci deve portare ad una maggiore consapevolezza, ad una responsabilità più grande, ad una maggiore sobrietà nello stile della nostra vita, all'abitudine al riutilizzo, al riciclo, alla riparazione di quello che ci serve.

La drammaticità della situazione dei contemporanei di Noè consiste nel fatto che perirono e non si resero conto di nulla. Perirono due volte: fisicamente, perché spazzati via dal diluvio, ma anche spiritualmente, perché non capirono e non si resero conto di nulla, mentre ne avrebbero avuto la possibilità. Noè ha visto, pensato e agito, mentre gli altri sono andati avanti come pecore. Così come spesso facciamo noi, ad esempio quando lasciamo che i nostri bimbi eccedano nel mangiare cibi e bevande zuccherate e poi ce li troviamo diabetici, tanto per fare un esempio purtroppo frequente.
Matteo, nel brano di Vangelo di oggi, ci fa riflettere sull’incoscienza, sul vivere senza discernimento. Non perché questo eviti la calamità. Noè non ha evitato il verificarsi del diluvio, ma ha potuto attraversarlo. Non ci succede, di fronte all’incrinarsi e allo spezzarsi, ad esempio, di una relazione coniugale, alla fine traumatica di un’amicizia, al suicidio di una persona cara, di ritrovarci a pensare, a un certo punto, e a dirci “avrei dovuto”, “perché ho detto questo e non ho invece taciuto?”, “perché ho agito così e non in un altro modo?”. Ripensiamo a dettagli, a un battere di ciglia, a un gesto o a una parola a cui al momento non abbiamo accordato importanza e che, ora, con il senno di poi, ci appare carico di presagi di ciò che sarebbe poi successo. E magari ci colpevolizziamo. Anche ciò che quando avviene è ineluttabile, in verità è stato preparato più o meno coscientemente dai nostri gesti, dai nostri comportamenti, dalle nostre parole o dalle nostre omissioni. Annunciando la venuta gloriosa, Gesù illumina il nostro oggi, il nostro quotidiano e ci avverte che è nella superficialità che si annega, non nella profondità.

Il discorso di Gesù prosegue nei vv. 40-41 con l’esempio dei due uomini che lavorano nei campi e delle due donne che macinano alla mola, di cui uno viene preso, cioè salvato, e l’altro lasciato, cioè abbandonato al disastro. Di nuovo Matteo presenta il giudizio che accompagna la venuta di Gesù, che mette in luce ciò che prima poteva restare nascosto e smaschera ciò che prima era invisibile. I due che erano insieme si trovano divisi, separati. Ciò che era nascosto viene alla luce, come dice Matteo nel suo Vangelo: “Non vi è nulla di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto” (Mt 10,26). Se i contemporanei di Noè “non si accorsero di nulla, non capirono nulla”, di questi uomini e di queste donne si può dire che “non si conobbero”. Nulla sembrava distinguerli, impegnati come erano nello stesso compito, lavorando accanto l’uno all’altro; vivevano accanto ma erano profondamente distanti. Si conoscevano davvero? La venuta del Signore svela la verità.

La parte finale del testo (vv. 42-44) è esortativa e con tre imperativi dice in che cosa consista la vigilanza: “vegliate”, “cercate di capire” (letteralmente: “sappiate”), “siate pronti”. La motivazione, anch’essa tre volte ripetuta, è sempre l’ignoranza del giorno e dell’ora della parusía. Non essendovi scampo a tale ignoranza, l’unica sapienza è tenere gli occhi ben aperti, essere svegli, non intontirsi e non cadere nell’ottundimento dei sensi; è cercare di essere pronti, attenti, dunque consapevoli e responsabili, non come i contemporanei di Noè. Sì, il Figlio dell’uomo verrà come un ladro (“Ecco, io vengo come un ladro”: Ap 16,15; cf. 3,3): se il quando è incerto, la sua venuta è certezza. Si veglia, dunque, e ci si tiene pronti, e si attende una persona, cercando di ravvivare nell’oggi il desiderio della sua venuta. 

Sto accompagnando alcune persone anziane nei loro ultimi giorni, anche qui della parrocchia, portando l'eucarestia, e a una che si interroga molto su questo, ed ha anche un po' paura, ricordavo che Santa Teresa di Avila, dottore della Chiesa, quando stava molto male e le chiedevano se aveva paura di morire, rispondeva “sono tranquillissima; sono sicura che sarò giudicata dal mio migliore amico”. E lei ha tirato un sospiro di sollievo. Il Signore viene, come un ladro perché non sappiamo quando, ma viene come il migliore amico. Di questo dobbiamo essere consapevoli e grati.

La vigilanza cristiana nasce in rapporto con la persona di Gesù Cristo che è venuto e che verrà: è lo spazio vitale della fede, della speranza e della carità. Ma anche lo spazio di una umanità desta, sveglia, attenta, luminosa. Così l’annuncio della venuta gloriosa del Signore proietta una luce che giudica e orienta anche il nostro modo di vivere il quotidiano fatto di gesti ripetuti, di relazioni consuete, di abitudini che necessitano però di essere illuminati e vivificati per non divenire la tomba del nostro vivere.

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E ora vorrei proseguire con qualche flash, pensando all'Avvento come tempo di attesa e tempo di santità. Il giorno dei santi di quest'anno, Enzo Bianchi, il priore della Fraternità di Bose, ha messo sul loro sito un commento alla solennità, in cui ricordava che il patriarca di Costantinopoli ha riconosciuto quattro santi, quattro monaci del monte Athos, tra cui uno che Enzo Bianchi e altri fratelli avevano conosciuto venticinque anni fa, grazie a un incontro indimenticabile, dopo ore di ascensione lungo una mulattiera che s’inerpicava dal mare fino alla sua cella. Si chiamava Efrem, o meglio papa Efrem, e già in vita irradiava una luce diffusa sul mondo cristiano.
Scrive Enzo Bianchi: «Raramente ho conosciuto un uomo di quella bellezza: ultraottuagenario, i capelli totalmente bianchi, lunghissimi, lo sguardo saettante, e in fondo a quello sguardo i suoi occhi, come due rubini, due carboni ardenti. Viveva in un eremo nel cosiddetto “deserto verticale” della santa montagna, ma era in contatto con l’universo intero. Ci disse:“La terra è colma di santi, ma non sappiamo vederli!” Queste parole ci riportano potentemente al vangelo delle Beatitudini, che inizia con queste parole: “Gesù vedendo le folle… insegnava ai suoi discepoli…” soprattutto a vedere, vedere quel che egli vedeva in quelle folle, vedere con gli occhi del cuore, affinati dall’amore ricevuto e donato. Quante persone abbiamo incontrato che ci hanno benedetto con la loro mitezza, con le loro lacrime, con la dolcezza del loro cuore e con la loro presenza leggera? La santità è presente nella quotidianità di una persona fedele che ci è accanto».
Per vivere l’Avvento con letizia e gratitudine abbiamo bisogno di ricordarci proprio questo: che “La terra è colma di santi”. Il mondo va avanti perché ci sono tanti santi, perché c'è tanto bene. Possiamo fermarci un attimo, e nominare brevemente i santi che ciascuno di noi ha conosciuto. Io ne conto una ventina che ho conosciuto e che sono già iscritti all’albo dei santi e beati della Chiesa, e poi ne ho tanti altri che sono certa mi attendono in Cielo, a partire dai miei genitori, dal nostro fondatore, padre Maggi, ad Albina, Grazia... persone che hanno vissuto la loro vita nella gioia di seguire Gesù e che sicuramente sono in paradiso.

L'Avvento è anche un tempo per accorgersi e per desiderare in profondità.

Occorre l'attenzione vigile delle sentinelle, per accorgersi della sofferenza che preme, della mano tesa, degli occhi che cercano i nostri occhi, delle lacrime silenziose. E dei continui doni che ci avvolgono ogni giorno, della bontà e della bellezza che abita in ciascuno, della luce che Dio ci offre. Mi viene in mente una frase di Dostojewski «Il vostro male è di non rendervi conto di quanto siete belli!». Occorre renderci conto di quanto dobbiamo ringraziare e lodare per tutti i doni che abbiamo ricevuto. Non che non si debba vedere quello che non va, ma è importante fare memoria di tutto il bene che ogni giorno riceviamo, a cominciare dalla vita quotidiana. La nostra testimonianza di cristiani oggi si gioca molto anche su questo aspetto, oltre che sulla relazione con gli altri e sulla condivisione con chi ha più bisogno di noi.

L'Avvento è anche il tempo del mio Natale. Nelle feste liturgiche, l’evento della Pasqua di Cristo, la festa delle feste, è reso presente, il futuro è annunciato. La storia si concentra nell’istante presente: una condensazione dell’eterno, una scintilla di Cielo.
San Luca nel suo Vangelo ci dice “state attenti che i vostri cuori non si appesantiscano” (Lc 21,34). Attenti al quotidiano, dove Dio cammina con passo leggero. Se non stiamo attenti non sentiamo, non ci accorgiamo, però Dio ci parla, parla sempre. Senza urlare, ma parla, e se ci mettiamo in silenzio lo possiamo ascoltare. È importante che ci mettiamo in questa disponibilità, di ascolto e di lasciar venire il Signore verso di noi. Sì, perché non siamo noi a doverlo cercare; lui ci precede. Attesa e attenzione sono le parole dell’Avvento. L’Incarnazione non è finita, ora è il tempo del mio Natale: Dio nasce perché io nasca.

Se vogliamo allargare lo sguardo e comprendere meglio il brano di Vangelo di oggi, dobbiamo inserirlo nel suo contesto, che è il capitolo 24, l'inizio dell'ultimo discorso di Gesù, prima di essere arrestato. Questo capitolo 24 iniziava con Gesù, che è uscito dal tempio e, di fronte ai discepoli che ne ammirano lo splendore, dice: “non rimarrà pietra su pietra che non sarà distrutta”. È un'affermazione che suona come una bestemmia, se si pensa ai 40 anni di lavoro per costruirlo e alla ricerca dello splendore nella costruzione. Perché questo? Ricordiamo che c'è anche l'episodio dell'offerta della vedova, che si dissanguava, per offrire tutto quello che aveva, al tesoro del tempio. Allora per Gesù, un'istituzione religiosa che, anziché aiutare i deboli, si fa mantenere dai deboli e sfrutta i deboli in nome di Dio, non ha diritto all'esistenza. Per cui Gesù dichiara la fine di tutto questo: ecco non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta.
Ma questo è appena l'inizio di uno sconvolgimento, di un cambiamento che avverrà nella storia e nell'umanità. E Gesù prosegue, sempre in questo capitolo 24, affermando, usando il linguaggio profetico, che il sole non darà più il suo splendore. Il sole in quella cultura rappresentava le divinità pagane.
Gesù, in questa azione di cambiamento dell'umanità, chiede la collaborazione dei suoi discepoli. L'annunzio del vangelo del vero Dio porterà l'eclisse delle false divinità e, dice Gesù, gli astri cominceranno a cadere. Gli astri erano immagini dei re, dei potenti, degli imperatori, che, su queste divinità, basavano il loro potere. Quando l'annunzio del vangelo oscura queste divinità, ecco che questi re, questi principi, uno dopo l'altro, cadono. Quindi è l'inizio di un cambiamento dell'umanità e, dice Gesù, così vedrete in cielo il segno del figlio dell'uomo.

Che cos'è questo figlio dell'uomo? È il titolo che più appare nei vangeli, insieme a figlio di Dio. L'espressione viene presa dal libro del profeta Daniele, nel capitolo settimo, dove il profeta, in un sogno, vede sorgere dal mare, il mare Mediterraneo, quattro bestie. Il linguaggio usato è quello apocalittico, oggi per noi poco comprensibile, ma molto chiaro per le persone di quei tempi, perché usato spesso. Le bestie sono immagini dei poteri politici, conosciuti per la loro ferocia, uno più brutale dell'altro. La prima bestia rappresenta l'impero Babilonese, poi quello dei Medi e quello dei Persiani. La quarta è talmente orrenda che il profeta non sa neanche come descriverla, e rappresenta Alessandro Magno.
Dio distruggerà questi poteri politici disumani, e darà il suo potere ad un figlio dell'uomo, espressione che significa l'uomo. Cioè l'azione di Dio nell'umanità è di eliminare tutto quello che è disumano, per far trionfare l'umano. Ieri come oggi. E soprattutto attraverso di noi.

L'Avvento viene a dirci che col Natale Gesù nasce sulla Terra ma in noi nasce l'uomo nuovo, la donna nuova, ma questo passa attraverso il riconoscimento che noi abbiamo dell'altro, un riconoscimento che permetta all'altro di vivere. Questo ci deve anche far riflettere sui nostri sprechi e su quanto poco a volte basta per fornire delle medicine essenziali in certi paesi poveri; ad esempio in Centrafrica bastano 10 centesimi per curare o prevenire un morbillo che spesso porta alla morte di un bambino. 

Gesù è il figlio di Dio in quanto manifesta Dio nella sua condizione umana, ma è il figlio dell'uomo, in quanto rappresenta l'uomo nella sua condizione divina. E questa condizione divina è un'offerta a tutti quelli che lo accolgono e che lo vogliono seguire. I nostri fratelli d'Oriente parlano di “divinizzazione”: il nostro frequentare Dio “divinizza” il nostro essere e ci porta a fare come quel papa Efrem incontrato da Enzo Bianchi, come raccontato prima, che era già trasfigurato sulla Terra, nel cuore, negli occhi, e dal Monte Athos vedeva una Terra piena di santi che noi non sappiamo vedere.
Questa offerta di condizione divina è offerta a tutti quelli che lo seguono. Ma, dice Gesù, bisogna stare attenti perché, e qui ecco il riferimento ai giorni di Noè. “Nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano”. C'è da stare attenti che questa offerta di pienezza di vita non venga distratta da quella che è la routine quotidiana. Dobbiamo stare svegli e fare ogni cosa nella consapevolezza di camminare sotto lo sguardo di Dio.

Il diluvio non fu la fine del mondo, ma fu l'inizio di un'umanità nuova. E perché questa umanità nuova inizi, Gesù ha bisogno di collaborazione, della nostra collaborazione, per umanizzare questa umanità con le nostre scelte di vita quotidiane. Questo tempo, il nostro tempo, siamo chiamati a viverlo da persone “trasfigurate”, consapevoli che Dio entra ogni giorno nella nostra vita per farla nuova, che ci chiede di “trasudare” la sua presenza, il suo Spirito, perché questo mondo già qui sia migliore.
Ma questo processo, come per lui, non sarà indolore. Ecco perché Gesù avverte i suoi discepoli: vigilate, vegliate. È lo stesso invito che darà nel momento dell'agonia del Getsemani ai suoi discepoli, perché è chiaro che i poteri non staranno fermi vedendo erodere il loro sistema, e quindi si scateneranno con ferocia, ci sarà la persecuzione come per Gesù. Per questo il discepolo deve essere pronto a subire delle conseguenze. Ma Gesù ci ha assicurato che Dio, tra chi perseguita e chi viene perseguitato, si pone sempre al fianco dei perseguitati.

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Vorrei concludere parlando di alcune belle notizie, notizie positive, di bene, che raccolgo e che provo a pubblicare, ma che purtroppo vengono pubblicate solo in parte, perché lo spazio per le belle notizie non è grande, per cui facilmente non le vediamo. Un titolo con cui raccoglierle è: “Tempo di speranza”: Dio viene nell’umanità che si umanizza. Vi do solo dei brevi flash:

Il movimento delle “sardine”, giovani promesse del bene comune, che esprimono l'indignazione delle coscienze contro il contagio dell'odio per costruire un orizzonte sociale nuovo. Di loro parla Enzo Bianchi in un articolo su La Repubblica del 25 novembre.

E poi la notizia dei tre braccianti immigrati di Rosarno che sono andati a pranzo col Papa. Un'esperienza indimenticabile per questi tre giovani, che non hanno avuto alcun problema a pregare insieme a tutti gli altri, alla Messa in San Pietro, pur essendo tutti e tre musulmani. E in questo episodio c'è anche da notare la generosità della ditta di trasporti calabrese che non si è fatta pagare il viaggio in pullman per questi tre ragazzi ma lo ha offerto gratis: anche questo un bel segnale di speranza!

Un'altra bella notizia è quella di un ragazzo di 14 anni, Marcel Belmonte, già alto quasi 2 metri, che ha ricevuto un premio nella sua scuola, di Noto, per aver dimostrato le sue doti umane e cristiane con un compagno di classe, un ragazzo ghanese, che era approdato alle coste siciliane dopo una traversata in mare, nel corso della quale aveva assistito impotente alla tragica morte del fratellino più piccolo. Il ragazzo, che all'inizio non si fidava di nessuno, è stato pian piano conquistato dall'amicizia di Marcel ed è riuscito ad inserirsi bene nella classe.

Un'altra notizia riguarda una giovane infermiera, in Stati Uniti, che ha donato il fegato ad un piccolo paziente di soli 7 mesi, salvandogli la vita. Il bimbo aveva una malattia che non permetteva il flusso della bile e da mesi non si trovava un donatore. L'infermiera, dopo aver fatto le analisi necessarie e verificato di essere compatibile col bimbo, si è sottoposta all'intervento, durato 14 ore. Ha poi spiegato: «Meritava di vivere e l’ho fatto».

Un'altra notizia ancora la riporta su Avvenire Eraldo Affinati con un articolo (del 28 novembre 2019) intitolato “Italiani senza timbro che insegnano l'Italia”. Parla di Omar, un sedicenne di Torpignattara di origine egiziana e non riconosciuto come italiano, benché nato in Italia e che parla con spiccato accento romanesco. Questo ragazzo, che parla anche arabo, tutti i giorni fa scuola a Ismail, un bimbo tunisino arrivato di recente in Italia, non accompagnato e ospite di un centro di accoglienza, insegnandogli l'Italiano. Scrive Affinati: “La società reale, è molto più avanti di quanto crediamo. A guidare le fila del nuovo consorzio umano, traghettando tutti noi verso la metà del Terzo Millennio, saranno proprio questi ragazzi, uno appena arrivato nel Bel Paese, pronto a imparare la nostra lingua per iscriversi a scuola, trovare un lavoro e chissà magari sposarsi e fare dei figli, l’altro che gliela sta insegnando, perché lui in Italia ci è nato, ci è cresciuto, ci è vissuto, ma è ancora in attesa di ottenere la cittadinanza.”

L'ultima notizia, che vi racconto quasi per intero, è quella data in un articolo di Marina Corradi su Avvenire del 10 novembre scorso, in cui si riportano i risultati di ricerche fatte da antropologi e genetisti dell'Università La Sapienza, di quella di Vienna e della Stanford University. Questi ricercatori hanno preso in esame i resti di 127 uomini sepolti in siti archeologici a Roma e nel Lazio, risalenti a un periodo compreso fra i 12mila anni fa e l’età post imperiale.
Per la prima volta una ricerca così ampia ricostruisce sulla base di dati biologici i flussi migratori della città che è all’origine della civiltà occidentale. Le ossa delle sepolture più remote raccontano che seimila anni avanti Cristo popolazioni di coltivatori giungono nel Lazio dall’Anatolia e dall’Iran e si sovrappongono a quelle locali di cacciatori e raccoglitori. Erano anche di etnia asiatica e persiana, dunque, i primi che seminarono le terre lungo il Tevere. Intorno al 1000 a.C. sopraggiunge una migrazione dalle steppe ucraine. Poi con la fondazione e la crescita di Roma le etnie di tutto il Mediterraneo si moltiplicano, naturalmente: Libano, Siria, Grecia, Medio Oriente, Nord Africa... Le ossa nei sepolcri raccontano di odissee in mare, diverse ma non così dissimili da quelle cui purtroppo assistiamo oggi. Uomini liberi e schiavi, che col tempo si sarebbero affrancati. Storie, lingue, usanze diverse, ma forse una comune memoria di fame e di guerra si depositavano nella terra della sorgente “Caput mundi”.
Se si potesse analizzare anche la polvere nel ventre più profondo di Roma, quella terra portata da piedi laceri di migranti venuti da ogni dove, che straordinaria miscela scopriremmo! Nel fulgore dell’età imperiale Roma è una megalopoli di un milione di anime (di cui circa solo un decimo di origine latina) e il suo dominio va dall’Oriente alle isole britanniche. Le legioni romane conquistano e colonizzano l’Europa, fondano città. E ancora, ci viene da pensare, insieme all’esercito romano, ai contadini, agli artigiani, ai mercanti, ai legislatori camminano i geni. Dopo la conquista e le guerre si depositano in nuove terre etnie nuove, si mescolano le eredità, in un’indistricabile formula. Anche di questo è fatta l’Europa, e l’Italia. Noi siamo pronipoti di barbari e di etruschi e latini, ma anche discendenti di uomini venuti da oriente o dalle steppe o dalle sponde d’Africa. Le ossa rimaste per secoli nelle tombe hanno una grande storia da raccontare.  Nei denti, affermano altri studi, gli isotopi dimostrano che quegli uomini non avevano bevuto l’acqua di Roma da bambini, non erano nati lì. Commuove, l’immaginare queste folle che nei millenni si sono avvicendate verso Roma, cercando terra, pane, un posto per vivere. Ma lo studio di queste tre prestigiose Università muove anche la ragione. È davvero sempre più difficile parlare di 'razza', davanti alla testimonianza delle ossa di Roma, così come probabilmente di tutte le grandi città dell’antichità. Razza? Siamo un coacervo di frammenti, un segreto mosaico di tessere sconosciute. Razza? Quei resti fragili e quasi inceneriti dal tempo raccontano, cantano quasi, tutta un’altra storia. E forse al più incanaglito neonazista che in uno stadio urla insulti razzisti farebbe bene, oltre al Daspo, il risultato di un test sul Dna da cui emergessero impensate radici nordafricane. Un referto su cui riflettere anche solo un’ora – tacendo, finalmente. Magari riuscendo a immaginare, in un improvviso sussulto del cuore, le marce, gli agguati, il sole a picco e le notti buie, e il mare in tempesta, e infine come un miraggio la linea all’orizzonte di una terra nuova: la storia infinita deposta nelle ossa degli avi. Poter immaginare questa storia immensa, che dono: fino a pensare che veramente nessun uomo è mai straniero”.

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Ci lasciamo dunque con questi inviti, alla vigilanza, alla responsabilità, all'attesa e all'accoglienza del Cristo nella storia e nella nostra vita personale, all'attenzione ai segni di speranza e di santità sparsi attorno a noi. Buon Avvento, Buon Natale!