giovedì 7 aprile 2011
Preghiera di Comunità Una
Traccia per la riflessione - Gruppo Fuoco
Letture della V domenica di  Quaresima, anno A


Vivere vivi

 
 
 

(Gv 11, 1-45)
Era allora malato un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella. Maria era quella che aveva cosparso di olio profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato.  Le sorelle mandarono dunque a dirgli: «Signore, ecco, il tuo amico è malato». All'udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio, perché per essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro. Quand'ebbe dunque sentito che era malato, si trattenne due giorni nel luogo dove si trovava. Poi, disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?».  Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se invece uno cammina di notte, inciampa, perché gli manca la luce». Così parlò e poi soggiunse loro: «Il nostro amico Lazzaro s'è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se s'è addormentato, guarirà». Gesù parlava della morte di lui, essi invece pensarono che si riferisse al riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse ai condiscepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!». 
Venne dunque Gesù e trovò Lazzaro che era già da quattro giorni nel sepolcro. Betania distava da Gerusalemme meno di due miglia e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello. Marta dunque, come seppe che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Gli rispose Marta: «So che risusciterà nell'ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo».
Dopo queste parole se ne andò a chiamare di nascosto Maria, sua sorella, dicendo: «Il Maestro è qui e ti chiama». Quella, udito ciò, si alzò in fretta e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei che erano in casa con lei a consolarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono pensando: «Va al sepolcro per piangere là». Maria, dunque, quando giunse dov'era Gesù, vistolo si gettò ai suoi piedi dicendo: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora quando la vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: «Dove l'avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Vedi come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Costui che ha aperto gli occhi al cieco non poteva anche far sì che questi non morisse?». 
Intanto Gesù, ancora profondamente commosso, si recò al sepolcro; era una grotta e contro vi era posta una pietra.  Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dài ascolto, ma l'ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». E, detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare».  Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di quel che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Parte 1: Sciogliete le bende

Questo che abbiamo letto è un Vangelo pieno di punti importanti su cui riflettere, come la morte delle persone che ami, l'avere fiducia in Gesù per lasciarsi guidare, il dubitare del suo aiuto, la lotta per slegarsi dalle abitudini... Si dice: "la morte fa parte della vita"; belle e sagge parole, ma quando a lasciarci sono i nostri cari o dei giovani, allora mi domando perché, e non trovo risposta soddisfacente, ma neppure dico "non doveva succedere", "non a lei", "non a me". So che il posto di certe persone non sarà mai occupato da altri come loro, ma so che chi ho amato o conosciuto bene è dentro di me e, pensando "lui avrebbe fatto così", è come se fosse ancora accanto a me.

Quel pianto di Gesù per Lazzaro è il pianto di un amico, di un uomo che lascia che la morte faccia il suo corso; ne conosce la potenza, ma sa anche che chi ha fede nel Padre risorgerà.

"Lazzaro, vieni fuori!", grida, e Lazzaro esce, ma legato dalle bende. Mi domando se è solo Lazzaro a essere legato dalle bende. E noi? Quali sono i nostri lacci?
Le nostre bende sono le nostre sicurezze, i nostri pregiudizi, i nostri schemi e i nostri egoismi. Fuori c'è la vita che ci vuole far partecipi della gioia di "vivere il mondo" che Dio ci ha donato con serenità e liberi da vincoli. Ma noi vogliamo rinunciare a queste bende? Bende che, mentre ci legano, ci illudono anche di proteggere le nostre certezze, il nostro piccolo giardino dove facciamo entrare solo chi non ci crea problemi.

Gesù dice: "Scioglietelo e lasciatelo andare". Lazzaro ci rappresenta: gli altri, i fratelli, gli amici, ci devono aiutare a sciogliere le nostre bende. Da soli è difficile migliorarci e i fratelli spesso ci aiutano o cercano di farlo. Ma noi siamo disposti ad accettare le loro fraterne correzioni? Oppure non le sentiamo abbastanza fraterne e preferiamo continuare tranquillamente la nostra vita? Vorrei chiedere a chi vuole aiutarmi di ricordarmi i miei difetti con un sorriso, perché, come si dice, la verità è "cruda", e un sorriso può aiutarmi a digerirla meglio.

Ricordo un canto che dice: "Spalancate le vostre porte, aprite i vostri cuori, lasciate entrare il Cristo, è lui il Salvator". Lasciamo entrare la parola di Gesù che raggiunge le nostre tombe, le apre, le scardina: nulla può fermare la sua parola. Apriamo i nostri cuori e accogliamo Gesù, datoci dal Padre per amore.
 

Parte 2: La morte ci deve trovare vivi

"La morte ci deve trovare vivi". Lo diceva un nonno di mia moglie nei suoi ultimi anni. Magari era per giustificare di mangiare o bere cose che il dottore gli aveva proibito, ma in ogni caso indica passione per la vita. Ed è una frase che spesso mi torna alla memoria quando incontro persone che appaiono stanche di vivere, rassegnate, quelle che, quando chiedi loro "come va?", ti rispondono "si tira avanti". No, no, no, non si può solo tirare avanti, non si può "lasciarsi vivere", che poi vuol dire vegetare! Non si può vivere già morti in attesa della morte del corpo: "La morte ci deve trovare vivi!"
Una grande testimonianza di vivere vivi l'ho avuta direttamente in casa mia, da mio padre. A 47 anni, professore di ginnastica all'ITI, allenatore di atletica, cronometrista ufficiale di basket, più varie altre attività sporadiche connesse allo sport, ha una trombosi e resta paralizzato su tutto il lato destro. Ma appena esce dall'ospedale riprende la vita, una nuova vita. Non più il lavoro o lo sport, ma andare al bar accompagnato dal figlio, giocare a carte un paio d'ore prendendo in giro gli amici. E poi iniziare a dipingere a olio, con la sinistra, e riempirci la casa di suoi quadri: d'estate uno al giorno! E noi a comprare tavolette, colori, vernici, pennelli, cornici... La sera del suo 58o compleanno, dopo aver fatto festa in casa, ha avuto un infarto. Ho cercato di rianimarlo ma inutilmente: se n'è andato. Ha vissuto vivo fino all'ultimo, e sicuramente è rimasto vivo anche dopo.

Non dovrebbe volerci una laurea in filosofia per capire che la vita è il più grande dono che abbiamo ricevuto, e voglio dire la vita in sé stessa, non una vita così o una vita cosà. Ma il brano di oggi del Vangelo ci porta al cuore della questione e ci dà l'occasione per una riflessione.
È un brano lungo, pieno di dialoghi e di spunti interessanti per la riflessione, come il tema della sofferenza e del non-interventismo di Dio. Io però voglio soffermarmi su un solo punto, che credo essere quello centrale, la frase di Gesù al centro del brano: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno.». Affermazioni simili Gesù le fa in (Gv 5, 24): «In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita», che è il brano letto nella messa di ieri, mercoledì, e in (Gv 8, 51): «In verità, in verità vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà mai la morte».
Torniamo al brano di oggi. Gesù sa che Lazzaro sta per morire ma perde tempo ancora per due giorni, e confida ai suoi discepoli di essere contento che Lazzaro sia morto perché potrà dare un segno per cui loro, i discepoli, possano credere in lui. Proclama di essere la resurrezione e la vita e resuscita Lazzaro per darne la riprova e confermare di essere inviato da Dio. Gesù, davanti alla morte, ci parla di vita. Ci dice che, credendo in lui, anche se moriamo, in realtà viviamo e non morremo in eterno. Questo è il punto: crediamo in quello che dice Gesù? O pensiamo che abbia fatto una bella sparata? Perché, se crediamo in lui, se crediamo nella verità di queste parole, anche se non le capiamo con la nostra mente, allora questa sì che è una buona notizia!

E non è solo la questione che, se ci comportiamo bene e siamo buoni, avremo poi il Paradiso, ma è che già ora noi siamo permeati della Vita, con la V maiuscola, è che già ora abbiamo Dio dentro di noi, Dio che è vita, eterno, senza tempo. Dio non è "là fuori", da qualche parte misteriosa, che ci guarda e, se siamo fortunati, fa qualcosa per allungarci la vita e alleviare le nostre sofferenze. No, Dio è vicino, è con noi. Dio è lo Spirito di vita dentro di noi.
Il discorso è difficile, ma credo importante che ci lanciamo o proseguiamo in un cammino verso l'incontro con Dio non al livello della mente, ma dello spirito. Un cammino in profondità che deve essere fatto da ciascuno di noi, individualmente, e per il quale io provo solo a lanciare qualche provocazione.

Dicevo che l'incontro con Dio va cercato non al livello della mente. Perché la mente è il nostro principale problema o, per essere precisi, è il suo uso distorto che ci crea notevoli problemi. La mente è uno strumento eccezionale per capire il mondo fisico e per la realizzazione di opere anche grandiose, ma si rivela così poco adatta a cogliere il senso della vita, e addirittura molto limitata a guidare i rapporti tra persone e tra popoli. E invece noi, e intendo dire praticamente tutti gli esseri umani, usiamo la mente di continuo e a sproposito: classifichiamo e attacchiamo etichette, valutiamo in termini di "va bene" o "non va bene", rimpiangiamo quel che era un tempo e ora non è più, ma anche quello che avrebbe potuto essere e non è stato, ci rammarichiamo per gli errori passati, vediamo tutte le differenze tra noi e gli altri. La mente in realtà si impadronisce di noi stessi, creando un'immagine mentale di noi basata sul nostro pensiero e sui condizionamenti dovuti alla situazione personale e culturale. Quest'immagine mentale possiamo chiamarla il nostro "ego", che va distinto dal nostro vero "io", la nostra vera essenza.
Una persona ben preparata, che non sono io, potrebbe parlare per ore delle varie sfaccettature dell'ego, ma il bello è che non è poi così importante capire l'ego con l'uso del pensiero. Siccome l'ego è fatto di pensiero, non è col pensiero che lo si può superare: basta invece cominciare a cogliere la sua esistenza in noi, iniziare a percepire i suoi limiti, cominciare ad illuminare la nebbia dell'ego con la luce della nostra consapevolezza, e questa nebbia pian piano si dirada.
Piccola digressione: giovedì scorso Gianni ci ricordava, come già avevamo sentito anni fa da don Gallo, che la parola "conversione" in Greco è «metànoia» che è composto dalla preposizione «metà - oltre» e «noûs - pensiero» (ho copiato pari pari dal suo testo). Gianni traduceva quindi conversione come capovolgimento del pensiero. Io mi permetto di dare una traduzione un po' diversa di conversione, come andare oltre il pensiero, andare al di là, andare sopra al pensiero, salire ad una percezione della vita e di noi stessi oltre i limiti dei ragionamenti. "Convertitevi e credete al Vangelo", ci dice Gesù: andate oltre, cercate di cogliere quello che il ragionamento non può cogliere, per poter accogliere la Buona Notizia che vi porto.

Torniamo quindi brevemente all'ego per descriverne alcune caratteristiche. So che non riuscirò ad essere molto chiaro, ma spero che voi ci mettiate del vostro per cogliere il senso finale.
Il processo fondamentale della costruzione dell'ego è quello di identificazione, parola che deriva dal Latino "idem-facere", ossia farsi uguale. Mi identifico con qualcosa, quel qualcosa diventa parte della mia identità e se lo perdo mi sento sminuito. Con cosa mi identifico? Il contenuto di questa identificazione varia da persona a persona, come pure l'intensità dell'identificazione, ma il meccanismo resta lo stesso per tutti.

Uno dei livelli di identificazione dell'ego più comuni è identificazione con le cose. Fin dai primi anni, se non mesi, il bambino si identifica con le sue cose, i suoi giocattoli. Guai a chi gli tocca quel certo orsacchiotto. Se il fratello prende un giocattolo abbandonato in un angolo, subito corre a toglierglielo: "è mio!". E da grandi non è che le cose siano tanto diverse: il giocattolo diventa la mia bella macchina, la mia casa pulita e il bagno sempre in ordine, i miei vestiti, la macchina fotografica o il cellulare con gli MMS, quegli oggetti "esclusivi" che abbiamo in pochi, ma anche la mia collezione di modellini o l'anello che mi aveva regalato la nonna. Se alcune delle nostre cose dovessero esserci rubate andremmo in crisi, se cambiamo casa e andiamo a stare in un appartamento ammobiliato con mobili vecchie brutti ci vergogniamo a farci venire la gente. Nell'ego dominato dal possesso delle cose, c'è il senso di non avere mai abbastanza, e l'ansia di perdere quello che si ha.
Ma poi si ha l'identificazione col corpo. Sono uomo, sono donna. E quindi il mio comportamento deve essere da uomo, da donna. Sono bello, piacente... e vado in crisi quando mi scopro imbruttito e invecchiato, perché non sono più quello che pensavo di essere. Ma ci sono anche i casi in cui ci identifichiamo con situazioni problematiche del nostro corpo, coi nostri malanni, e speriamo di ottenere mediante essi attenzione e compatimento, o scusanti per la poca voglia di darsi da fare. E siccome l'ego si aggrappa alle identità che si è trovato, sarà difficile che la persona che si è identificata coi propri malanni voglia veramente liberarsene, perché rischierebbe di non sapere più chi è.
E poi ci identifichiamo spesso col nostro ruolo o la nostra professione. Invece di "fare il professore" io "sono" professore, anche quando mi trovo fuori dal mio contesto di lavoro. Io "sono" padre o madre, e anche quando i figli sono ben bene adulti voglio dire loro come ci si deve comportare. Spesso il prestigio diventa parte di sé, ed ecco che si affaccia il pericolo del "disonore" se perdo il lavoro o la reputazione.
E poi ancora si ha quasi sempre l'identificazione con la propria cultura, le proprie idee, le proprie tradizioni. Un ego che diventa ego collettivo, e che porta a conflittualità con gli "altri"  ("noialtri" e "voialtri"), e che magari, per sostenere la "verità" delle idee di fede, porta a scomuniche reciproche, fino alle vere e proprie guerre.

Sì, l'ego si nutre di identificazione ma anche, come logica conseguenza, di separazione. Il risultato sono le continue lamentele verso gli altri, l'insistenza nell'avere ragione e dare torto e il risentimento che cerca di sminuire l'altro per rinforzare il proprio ego, anche quando apparentemente siamo nel giusto. Quando dico che certi politici sono avidi e corrotti e mi indigno e mi offendo, io non mi elevo al di sopra di essi compatendo la loro scala di valori terra terra, ma in realtà rafforzo il mio ego di persona che si reputa onesta e corretta.

Occorre "lavorare" per depotenziare il nostro ego, individuale e collettivo. Occorre liberarsi dal rimuginare della mente, smettere di classificare, giudicare e pre-giudicare, smettere di rimpiangere e rammaricarsi, smettere di aspettare sempre qualcosa di futuro per essere felici. E invece ascoltare la vita in noi, sentire il nostro corpo, percepire il silenzio da cui sbucano i suoni, accorgerci di noi stessi che udiamo i suoni. Accogliere la vita come viene, accettare ciò che esiste, anche quando cerchiamo di migliorare la nostra situazione. E in questo accettare l'esistente e il momento presente possiamo scoprire un sacco di doni, uno dopo l'altro, dietro l'angolo del minuto che viene. Occorre anche liberarci dalle troppe idee su Dio, per non limitare la sua infinita grandezza dentro la nostra piccola testa, e cercare invece di percepirlo attraverso la fiducia. Lo so che il discorso è difficile, che è difficile capire, ma è questo che chiede sempre Gesù: Non chiede di capire ma di avere fede, fiducia in lui: non si può crescere nella fede con il ragionamento.
Più riusciamo a distaccarci dal nostro ego, più lo facciamo "morire", più rinunciamo alla vita dell'ego, cioè del costrutto mentale che ci siamo fatti di noi stessi, e più ci apriamo alla vera vita, alla Vita con la V maiuscola, alla presenza di Dio dentro di noi che ci unisce a tutti gli esseri e al mondo. In questa luce diventa estremamente chiara l'affermazione di Gesù che si trova in Matteo e negli altri vangeli sinottici: «Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16, 25). Perdere la vita falsa del mio ego, a misura della mia mente, per trovare la vita vera, a misura dell'amore di Dio.

Ma se poco fa ho usato il verbo "lavorare", in realtà non dobbiamo fare niente, solo renderci conto di come siamo, renderci consapevoli, sentire la vita e lasciare che la luce del nostro essere presenti alla vita illumini le ombre del nostro ego, facendolo evaporare. Ricordo che qualche anno fa, proprio qui in chiesa, dicevo che anche se dovevo constatare i miei molti limiti, le mie scemenze, fobie, manie, pigrizie, egoismi, dovevo ringraziare ugualmente il Signore "per il Carlo che mi aveva dato", che era quello con cui dovevo camminare. Pensate: io che parlavo di lavorare con un Carlo che mi era stato dato. Ma allora io ero un'altra cosa da lui? Come facevo a parlare di me stesso come di un'entità separata? Ebbene, penso che quella sera avevo avuto un primo barlume di consapevolezza, il rendermi conto che il mio vero io era al di là e al di sopra di quei limiti che sperimentavo. Il mio vero io era la coscienza che osservava.

Liberandoci dal nostro ego, dall'immagine mentale che si ha di noi stessi, e cominciando a cogliere sempre più la vita dentro di noi, la nostra vita sarà più piena, nitida, permeata da una sottile gioia, una gioia che non ha nessun corrispondente negativo. Mio padre penso che non si fosse identificato con lo sportivo che era prima della trombosi, ma nemmeno col mezzo-paralizzato che era dopo, ed ha vissuto vivo fino al suo ultimo momento.
E anche quando non contiamo più niente, anche quando non saremo più capaci di fare le cose di cui oggi potremmo vantarci, saremo vivi, fino all'ultimo. Non sappiamo esattamente cosa succederà alla fine, ma possiamo ora convertirci per arrivare all'ultimo momento già nelle braccia del Padre.