Gruppo Fuoco

Preghiera di Comunità Una di giovedì 28 febbraio 2010

Profezia e Carità
Commento alle letture della IV domenica del T.O., anno C

Il tema che unisce la prima lettura e il Vangelo di questa domenica è quello della profezia. Da una parte c’è il profeta, col suo ruolo di denuncia dei vizi della società e di difesa degli oppressi e il suo annuncio della fedeltà di Dio, che apre le porte alla speranza, e dall’altra c’è l’atteggiamento del popolo, e del potere, nei confronti di un uomo che dice cose scomode e non fa quello che si vorrebbe facesse. Questo è evidente nel brano di Vangelo: Gesù, che aveva appena dichiarato che si erano avverate le parole del profeta Isaia e si presentava quindi non solo come un grande profeta ma molto di più, come il Messia, si scontra contro lo scetticismo prima e la rabbia poi dei suoi concittadini, furiosi perché Gesù si rifiutava di compiere anche lì i segni prodigiosi compiuti a Cafarnao. Da qui una possibile riflessione sia su come noi accogliamo i “profeti”, sia su come noi cristiani esercitiamo il mandato di essere un popolo di profeti, di persone che vedono le cose con gli occhi di Dio e parlano a nome suo. E questa riflessione può essere fatta sia in termini individuali che anche come Comunità.

Innanzi tutto devo domandarmi come accolgo Gesù. Anche io mi aspetto da lui segni miracolosi in mio favore e, se non vengono, mi arrabbio e provo a buttarlo giù da un burrone? Quante volte, di fronte agli eventi difficili della vita, di fronte alla sordità di Dio alle nostre preghiere, ci viene la tentazione di rifiutare il Signore, di negare la sua divinità, di accantonarlo come inutile, anzi, di essere proprio arrabbiati con lui perché ci ha imbrogliati, ci ha negato quei miracoli di cui tanto si è parlato. O accetto questa figura di Messia che, prima di tutto e come gli antichi profeti, mette alla luce le mie povertà e mi chiede di cambiare? ... questo Messia che non risolve i problemi degli uomini con la forza dei miracoli ma ci rivela l’amore infinito di un Dio che si fa crocifiggere per noi? È duro accettare la logica della croce, come è duro credere che per realizzare una pienezza di vita bisogna provare a perderla, la nostra vita, a spenderla, a regalarla....

Potremmo anche domandarci se e come ascoltiamo le voci dei profeti del nostro tempo, quelli che parlano a nome di Dio. Tanti sono quelli che parlano di Dio, di cristianesimo, di come dobbiamo vivere e comportarci e che scrivono libri al riguardo: il papa, vescovi, cardinali, teologi, missionari, sacerdoti e laici. Io stesso ho libri di frère Roger, di don Gigi di Romena, di Ernesto Olivero, di dom Helder Camara, di Tony deMello, di Henry Nowen, di don Tonino Bello, di don Farinella, di Carlo Carretto, di Alex Zanotelli. Sapete qual è la mia paura? Quella di dare spazio a chi mi apre delle prospettive di speranza, oppure a chi denuncia le situazioni di ingiustizia e punta sulla necessità di un intervento politico e sociale, che però è sostanzialmente compito di altri, e di sorvolare invece veloce su chi mi interpella personalmente e spinge a smuovermi dalle mie comodità. Penso sia necessario approfondire anche i libri scomodi, ascoltare anche le voci scomode, accettare il senso di fatica che ci provocano, lasciarci mettere a disagio, perché qualcosa di queste voci entri fin nel nostro cuore, smuova, agiti, metta in moto qualche meccanismo di comprensione e accettazione della vera voce di Dio. Pensavo, ad esempio, che come Comunità abbiamo seguito nei due anni passati un cammino sulla sobrietà, la povertà, la restituzione: certo, non possiamo fare sempre incontri e giornate sugli stessi argomenti, ma dobbiamo fare in modo che quelle voci continuino a interpellare sempre ciascuno di noi, perché la nostra vita sia sempre in cammino, in avanti e in alto.

Guardando l’altra faccia della medaglia, mi domando come viviamo la chiamata a far parte di un popolo di profeti, sia come singoli che come Comunità. In un commento alla liturgia di domenica leggevo: “Come Corpo di Cristo, la Chiesa partecipa al carisma profetico del suo Capo. Essa ha l’autorità di leggere gli eventi nella fede, in rapporto a quanto e stato compiuto una volta per sempre in Gesù Cristo, e a quanto deve essere ancora compiuto perché il Corpo raggiunga la sua statura adulta.”. Quella alla profezia è una chiamata affascinante, è l’invito a vedere le cose con gli occhi di Dio, a leggere gli eventi del mondo di oggi nell’ottica del cammino tortuoso di realizzazione del Regno, osservando ciò che va in avanti e ciò che costituisce un passo indietro. Credo che anche noi, come Comunità dobbiamo sempre cercare di dare una risposta positiva a questa chiamata. Come dicevamo spesso un po’ di anni fa, dobbiamo leggere il Vangelo fasciato nella carta di giornale, legando tra loro fede e vita. È però una chiamata difficile e pericolosa, perché innanzi tutto dobbiamo vedere con gli occhi di Dio la nostra stessa vita, senza potersi rigirare ciascuno di noi le cose come ci fa più comodo. Quindi questa chiamata ci chiede una maggiore radicalità nella vita cristiana. E poi, come leggiamo nella prima lettura, del profeta Geremia, essere voce profetica porta inevitabilmente a posizioni non allineate con le idee del “mondo” e con le idee di chi conta, di chi può influenzare i nostri interessi. Non si può essere voce profetica se siamo legati al prestigio, al potere, ai beni materiali, se facciamo salamelecchi al potente di turno perché è meglio tenerselo buono per mantenere dei benefici e dei privilegi. In definitiva, quello che queste letture ci ricordano, è che possiamo essere voce profetica solo nella misura in cui noi per primi viviamo come il Signore ci chiede e ci sentiamo distaccati dal bisogno dell’approvazione di chi conta.

Essere voce profetica però non significa necessariamente fare i censori di ogni comportamento altrui. Gesù dice infatti: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?” E questo discorso ci fa da chiave per entrare nella seconda lettura, l’inno alla Carità di San Paolo, anche se possiamo toccare solo pochi punti.

«Se avessi il dono della profezia... i misteri e la scienza...». È chiaro l’invito a saper discernere, a coltivare il dono della profondità, in opposizione alla superficialità di chi si beve tutto quello che viene detto dai media o di chi non si legge dentro e non guarda dentro al cuore dei fratelli e degli altri in generale. Ma la sola profondità e capacità di capire e discernere può generare superbia, per cui l’invito a intingere la profondità nell’amore, per trasformarla in una robusta tenerezza per il prossimo, anche e soprattutto quando fa e dice scemate, come le faccio io, altrimenti, come dice san Paolo, “non sarei nulla”.

«Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli...». San Paolo non invita certo a rifiutare i diversi doni. Anzi, credo sia importante sviluppare la conoscenza e le competenze, avere in Comunità chi ha varie capacità, cucinare, organizzare una festa o una gita o un mercatino dell’usato o un Natale in Piazza, gestire i rapporti con il Comune per le case alloggio, tenere la contabilità, saper preparare una catechesi, capire e gestire situazioni e quanto altro. Sono doni che il Signore invita a sviluppare e mettere a frutto. Dobbiamo però sempre verificare, come individui e come Comunità, quanto li impieghiamo per costruire il Regno di Dio, e non per metterci in mostra come chi è più bravo o come chi capisce meglio le cose, o per cercare di contare di più.

«Se avessi una fede da spostare le montagne...». L’invito è quello di verificare quanto la mia, la nostra fede si ferma all’esterno del nostro essere, per sentirci a posto, o per mostrarci più “santi”, o quanto invece accresce la nostra capacità di amore, soprattutto quando nessuno, tranne il Signore, lo noterà. Se la nostra fede non ci porta a fare scelte di amore, di perdono, di riconciliazione... non serve a niente.

«E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato...»: è l’atteggiamento di chi si impegna, si regala, si lascia bruciare... cosa si può chiedere di più? Verifichiamo però quanto, nella nostra vita quotidiana, facciamo il bene, sia nei servizi (poveri, anziani, catechismo, ecc.) che nel lavoro o in famiglia (figli, nipoti, genitori anziani), per riceverne gratitudine e riconoscimento, o per sentirci più bravi, e quanto riusciamo a donare gratis, per il bene degli altri, e basta! Naturalmente bisogna darlo “il corpo alle fiamme”, ossia coinvolgendosi e donandosi, e non dando agli altri solo qualche spicciolo della nostra vita. Dio ci scampi, diceva don Prospero, dai “buoni sentimenti” del cuore vuoto a pancia piena!

San Paolo elenca poi diverse caratteristiche della carità, su cui dovremmo soffermarci a pensare ogni tanto. Ne riprendo qui qualcuna, brevemente, seguendo e attualizzando un vecchio documento del 1984, il 113.

«La carità è paziente»: tante situazioni fanno crescere in noi un sentimento inconfondibile, l’irritazione! Davanti a chi ci irrita, dobbiamo prima di tutto fermarci a pensare se ci irrita perché ci mette in discussione e quindi dobbiamo riflettere e vedere se non siamo noi a dover cambiare. Ma se invece è proprio quella persona che sbaglia, che dice scemate o fa cattiverie, dobbiamo provare a capire cosa lo spinge a quegli atteggiamenti, a quelle parole, forse situazioni personali di insicurezza, di sofferenza, di paura, di delusione. Questo esercizio può far nascere il sentimento opposto, la “compassione”, e farci scoprire nell’altro il fratello amato da Gesù.

«è benigna»: coltivare la tendenza a disporci al sorriso, a cercare di accogliere l’altro con affetto, a cogliere nell’altro ogni aspetto buono, mettendo in secondo piano ogni suo aspetto antipatico.

«non si gonfia, non si vanta»: primo frutto della carità è l’umiltà. Coltivare una volontà di non mettersi in mostra. Verifichiamo che il desiderio di apparire è stato spesso la fonte di grandi malumori nella vita di ciascuno di noi. Cerchiamo di scoprire il silenzio come terra buona dalla quale nascono parole di bene e non ortiche pungenti.

«non gode dell’ingiustizia ma si compiace della verità»: impariamo il gusto di dire le cose in sincerità, la spinta ad essere “interi”, senza doppiezze, come ci vede Dio. Ma senza camuffare per sincerità la voglia di “vomitare” quello che ci sta sullo stomaco. Una sincerità alimentata dallo stare regolarmente alla presenza di Dio, così da non avere timore davanti a chi conta meno di Dio. Ma una sincerità che dà la precedenza alla carità, così che, se la verità non dovesse fare il bene dell’altro, ma il suo male, saprà aspettare fino a quando potrà giovare alla carità.

«tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta»: disporsi a seppellire le brutture che vediamo nei fratelli, anziché a metterle in evidenza, per costruire un mondo più bello e pulito. E anche quando vediamo nell’altro dei secondi fini, imparare a far finta di non capire e a sperare dagli altri, e da noi stessi, un po’ di quello che solo Dio sa sperare. Le persone crescono nella misura in cui qualcuno spera in loro. Il buon senso ci invita al sospetto; la fede alla fiducia, diventando come bambini... La logica umana è sovvertita da quella di Gesù che chiede discepoli capaci di farsi trafiggere col sorriso... Per Dio niente è impossibile.

«La carità non avrà mai fine»: Il primo scopo della Comunità è quello di aiutarci a camminare sulla strada del Vangelo. Pensiamo al fatto che Dio è Carità e chi vive nella carità vive già in Dio. Sappiamo quindi che, quando amiamo davvero, siamo già nelle braccia del Padre, e inauguriamo fin da oggi la vita eterna, quando non faremo altro che amare.