Campo estivo - San Giovenale
di Peveragno
martedì 7 agosto2012
Rimanete in me!
Capitolo 15
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Come si è detto in apertura del
Campo, Gesù è la Parola del Padre e una sola cosa con lui,
e quindi da ascoltare con estrema attenzione e fiducia anche quando ci
dice cose che possono non esserci troppo chiare: Lui non parla per sentito
dire o per aver interpretato un momento di ispirazione, ma dice quello
che conosce direttamente. E qui, in questo brano, ci svela le realtà
spirituali più profonde, anche se deve usare un linguaggio che i
discepoli, e noi, possano comprendere. Per questo usa immagini tratte dalla
vita comune, come la vite e i tralci, qualcosa che tutti avevano ben presente.
Nell'Antico Testamento la vigna era usata per indicare il popolo eletto
e il vignaiolo era Dio che si prendeva cura di lei. Qui Gesù
afferma qualcosa di assolutamente nuovo: Cristo si è fatto vite
e noi siamo i tralci di questa vite. È lo stesso mistero per cui
la Parola di Dio, per mezzo di cui è stato creato l'universo, si
è fatto creatura... è il mistero dell'incarnazione. Usando
parole prese da Ermes Ronchi: "Dio è in me non come padrone
ma come linfa vitale. Dio è in me, non come voce che
impone, ma come il segreto della vita. Dio è in me, come
radice delle mie radici, perché io sia intriso di Dio".
L'immagine della vite e dei tralci indica
quindi la relazione tra l'uomo e Dio non in modo vago e lontano, ma dice
una prima realtà profonda: noi siamo, per nostra
natura, uniti a Dio. San Paolo lo ribadisce ai Corinzi: "Esaminate
voi stessi se siete nella fede, mettetevi alla prova. Non riconoscete forse
che Gesù Cristo abita in voi?" (2Cor 13,5). Gesù usa
il verbo "rimanere", perché siamo già uniti a lui. Dio è
la linfa, la Vita dentro di noi. Questa è una Buona Notizia portata
da Gesù: Dio non lo devo cercare lontano, Dio è dentro di
me e devo scoprirlo cercando in profondità.
Il guaio, vedete, è che noi abbiamo
dimenticato questa realtà. Non credo di dire un'eresia se affermo,
riferendomi al brano della Genesi relativo alla tentazione da parte del
serpente e alla caduta di Adamo ed Eva, che il peccato originale consiste
in questo: aver sentito Dio, il Creatore, come esterno, lontano, e aver
cominciato ad usare la mente in modo distorto, sviluppando sospetti sulla
sincerità di Dio, alimentando sogni esagerati per il futuro (diventare
come Dio), per poi far nascere paure ("ho avuto paura, perché
sono nudo, e mi sono nascosto", dice Adamo).
Ed è così che ci troviamo
imprigionati in una ragnatela di pensieri e di costrutti mentali che creano
in noi uno schermo opaco che ci impedisce di entrare in contatto profondo
col nostro vero essere, con il prossimo, con Dio, schermo fatto di concetti,
etichette, definizioni, parole, giudizi, speranze, paure. È questo
schermo mentale che crea l'illusione di separatezza, che ci fa dimenticare
il fatto essenziale che Gesù ci ricorda in questo brano, e cioè
che, sotto il livello delle apparenze fisiche e delle forme separate, noi
siamo in unione con Dio e con tutto ciò che esiste. È un
po' come se noi fossimo delle onde in mare aperto e vedessimo le onde davanti
e dietro di noi, assegnando loro dei nomi, guardandole come simpatiche
o antipatiche, invidiandole o schernendole, e dimenticassimo che, se guardiamo
verso il fondo, siamo forme create tutte dallo stesso mare e fatte della
stessa sostanza.
Il popolo dell'Antico Testamento credeva
di sicuro nella esistenza e presenza di Dio, ma sempre come entità
esterna, altra dall'uomo. Dice il salmista "Signore, piega il tuo cielo
e scendi" (salmo 144) e noi sentiamo questo versetto risuonare nel
nostro cuore, ma Gesù ci dice che Dio il suo cielo l'ha piegato
ed è sceso: siamo noi che non ce ne siamo accorti!
Mi viene a mente anche quello che scriveva
Santa Teresa d'Avila alle sue suore nel libro "Il Castello Interiore".
L'immagine dell'anima umana che Santa Teresa ha sentito come più
vera e che ha trovato più utile è quella di un castello di
diamante, strutturato su tanti livelli, ciascuno con un numero grandissimo
di stanze, al centro del quale si trova Dio. Però l'uomo non riesce
normalmente a cogliere lo splendore di Dio al suo interno, perché
si ferma sul camminamento di ronda attorno, e le pareti sono incrostate
di sporcizie... L'anima in cerca di Dio deve cominciare ad entrare nel
castello, lasciando fuori i pesi che la ostacolano e purificando il proprio
cuore. E la porta per entrare, dice Santa Teresa, è la preghiera
e la meditazione (Castello Interiore, Cap.1, §7). Si tratta di un'immagine
colta dalla santa nella sua esperienza, e che bene descrive il cammino
dell'uomo per comprendere a fondo la realtà descritta da Gesù.
Purtroppo (e spero di non essere messo
al rogo per quello che dico!) anche nella fede cristiana che ci è
stata trasmessa da ragazzi la consapevolezza della presenza divina in noi
non è stata messa in evidenza, ma semmai oscurata da un velo fitto
di definizioni ("Dio è l'Essere perfettissimo ecc. ecc."), di comandamenti
e precetti, elenchi di vizi e virtù, riti da adempiere e formule
da recitare, indulgenze plenarie, visita delle sette chiese, sette primi
venerdì del mese.... Ricordo che nel periodo del Concilio Vaticano
II il mio parroco si dichiarava contrario a girare l'altare verso il popolo,
perché l'altare tradizionale rendeva visibile il ruolo del sacerdote
di mediatore tra il popolo e Dio... come dire che Dio è lontano
e occorre una ricetrasmittente progettata apposta per creare il contatto.
E invece Dio è dentro, e non ce ne eravamo accorti... totale
cambiamento di prospettiva!
Vedete come il Vangelo non è mai capito una volta per tutte, come noi e la Chiesa intera dobbiamo continuare a lavorare per far emergere lo splendore della luce che Gesù ha portato! Chissà quanti uomini e donne hanno avuto la consapevolezza della presenza di Dio in noi, in tutta la storia della Chiesa, santi, sante, mistici, vescovi, monaci, papi, ma questa consapevolezza deve estendersi sempre di più in un numero sempre più grande di donne e uomini, per rendere più visibili le tracce di un Regno di Dio che cresce. Il nostro mondo, quello cristiano, è ancora troppo legato all'idea dell'Antico Testamento di un Dio lontano, magari anche non da cercare di incontrare ma da tenere buono. Dobbiamo far parte di un popolo sempre più numeroso di persone che sentono la presenza di Dio dentro di sé e si lasciano irrorare dalla linfa di Cristo, per portare frutti duraturi.
Occorre quindi che noi recuperiamo la
realtà di questa Buona Notizia, che scopriamo la presenza di
Dio in noi. Non però in modo intellettuale, costruendosi cioè
in testa un altro concetto, ma come consapevolezza quotidiana. Quali strumenti
possiamo usare per recuperare l'unione con Dio? Più avanti, alla
fine, suggerirò gli strumenti più chiaramente devozionali,
le forme di preghiera più efficaci, ma esistono cammini che apparentemente
non hanno niente a che fare con la preghiera, ma che sono ugualmente di
fondamentale importanza e di cui qui posso solo dare dei brevi flash.
Innanzi tutto bisogna pian piano smontare
lo schermo mentale di cui vi parlavo prima, ossia abbandonare l'abitudine
compulsiva ad usare schemi fissi con cui giudicare ogni cosa, classificare
comportamenti, etichettare persone. Per fare questo si tratta, come dire,
di accendere il faretto della Consapevolezza, della Presenza, ossia cominciare
a tirarsi sempre più spesso al di sopra di quello che accade e osservare
noi stessi e gli altri come dall'esterno, senza giudicare, ma solo osservare.
Magari anche domandarsi "Guarda come mi faccio innervosire dalle parole
di lui/lei.... ho paura di mettere in discussione le mie abitudini?" e
cose del genere. Smettere di vivere nei rimpianti del passato o nel rammarico
di cose fatte o non fatte. Smettere di vivere con l'ansia del futuro o
mettendo nel futuro l'aspettativa della felicità.
Gesù, nello stesso Vangelo di
Giovanni, dice: «In verità, in verità vi dico: prima
che Abramo fosse, Io Sono» (Gv 8,58). Usando l'espressione "Io
sono", Gesù afferma di essere Dio, quel Dio che è nell'eterno
presente. Ed è solo nel momento presente che possiamo incontrare
Dio. Da qui l'importanza di vivere sempre più nel momento presente.
E questo lo si impara a fare anche con semplici attenzioni, del tipo che
quando vi lavate le mani sentite l'acqua che scorre, il profumo del sapone;
quando aspettate l'autobus percepite il sole sulla faccia, il peso del
corpo sui piedi, il chiacchiericcio della gente; quando uscite sul poggiolo
ascoltate il canto degli uccellini e sentite l'odore di soffritto che viene
dall'appartamento accanto... Sentire, percepire, accorgersi, rendersi conto...
tutto senza giudicare, etichettare, valutare, semplicemente "essere".
E poi sempre più spesso sentire
la vita che scorre dentro di voi. Domandatevi: c'è vita nel mio
corpo? C'è vita nelle braccia, nelle gambe, nell'addome, nel torace?
Sentire il respiro, scorrere le sensazioni del corpo, sulla testa, sulle
guance, nelle spalle, nei piedi... Sentire senza etichettare...
Sono tutti atteggiamenti che abituano
a far tacere la mente, usandola quando serve e quando lo vogliamo noi,
per aprirci invece a una consapevolezza di noi stessi e degli altri e all'ascolto
della voce di Dio, una voce che è sempre novità e creatività.
E anche quando questa voce non la sento, resta la fiducia, una fiducia
semplice che mi dice che Dio è in me, che mi abita, che mi ama e
mi sostiene.
Il recupero della consapevolezza della
nostra unione con Dio porta con sé grandi benefici, per noi stessi
e per chi ci è vicino. Benefici che poi sono i "frutti" di cui parla
Gesù. Sempre Ermes Ronchi dice, a proposito di «portare frutto»,
che il nome nuovo della morale evangelica non è sacrificio ma
fecondità, non ubbidienza ma espansione, non rinuncia ma centuplo.
Non di penitenze c’è bisogno, ma di frutti con dentro un buon sapore
di vita, a dissetare l’arsura delle cose, dice sempre Ronchi.
Allora penso alle prime parole di Gesù
risorto ai suoi discepoli: "Pace a voi!" (Gv 20,19). Sì,
la pace del cuore è di sicuro il primo frutto. E il secondo frutto
è la gioia, come ci dice Gesù nel brano letto: "Questo
vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia
piena". Attenti, non l'euforia, non la contentezza, ma una sottile
vena di gioia che percorre le vene quando ci abbandoniamo alla Vita, mollando
ad esempio ogni resistenza verso ciò che esiste e che non ci piacerebbe.
Posso, a questo proposito, condividervi una mia esperienza di un po' di
anni fa, di quelle sere che, mettendomi a tavola, sentivo una botta di
solitudine. Però la accettavo e, in un certo senso, la "bevevo"
come una medicina. E subito dopo mi usciva dal cuore un "Grazie, Signore",
e sentivo questo sottofondo di gioia che si stendeva sul fondo del mio
cuore.
Tornando ai frutti, non credo sia casuale
che Gesù abbia parlato di vite e tralci. Il frutto della vite è
l'uva, e da questa il vino, vino che si è da sempre usato soprattutto
nella festa. Gesù, dicendoci di essere la vite, dice anche che è
lui che dà gusto alla vita, le dà brio. Gesù ci
dice cioè che la nostra vita deve essere un gusto, un piacere, deve
essere appassionante. Però, ripeto, non l'euforia, la gasatura
di qualche momento che poi finisce lasciando il posto alla noia o allo
sconforto, ma un sottofondo permanente di gioia. Non è anche
questa una gran bella notizia rispetto alla nozione di "valle di lacrime"
che ci hanno insegnato in gioventù?
E poi, recuperare l'unione con Dio
ci fa riscoprire l'unione profonda con tutti i fratelli e il Creato, perché
siamo tutti percorsi dalla stessa linfa vitale. Da qui i frutti
dello Spirito noti come benevolenza, mitezza, bontà, pazienza.
Quando qualcuno ci dice qualcosa di storto, se abbiamo abbandonato i soliti
schemi mentali di reazione e siamo diventati consapevoli della Vita dentro
di noi, qui e in questo momento, impareremo a rispondere con una consapevolezza
che smonterà gli schemi distorti e conflittuali dell'altro, che
costruirà rapporti nuovi di fraternità.
Frutti quindi di vita piena, di vita
vissuta intensamente, di vita serena, pacificata, gioiosa, aperta.
Frutti di rapporti fraterni, di attenzione. E anche frutti di
migliore salute fisica. Sì, perché quando ci allineiamo
con la Vita dentro di noi, anche il corpo funziona meglio, si rallenta
il processo di invecchiamento, si rafforza il sistema immunitario. Come
dice il salmo: "Io pongo sempre innanzi a me il Signore, sta alla mia
destra, non posso vacillare. Di questo gioisce il mio cuore, esulta la
mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro" (Salmo 16, 8-9).
Un tasto che può sembrare dolente
del brano di oggi, e che pare contrastare di brutto con la frase riguardo
alla gioia, è quello dell'accenno alla potatura. Però intanto
va detto che non siamo noi a dover potare rami della nostra vita.
Anche se ci rendiamo conto che ci sono cose, nella nostra vita, che disperdono
energie che servirebbero a portare più frutto, ad esempio una dipendenza
da svaghi, la poca disponibilità a modificare i nostri piani, l'attaccamento
alle cose, l'amor proprio o cosa altro, non è lottando direttamente
contro queste cose che si ottengono risultati. E se anche riuscissimo con
la forza di volontà, correremmo il rischio grandissimo di cadere
nella superbia: "io sono uno che quando vuole ce la fa!" E la superbia,
l'orgoglio, è il "grande peccato" che più ci separa da Dio.
"Anche dall'orgoglio salva il tuo servo perché su di me non abbia
potere; allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande
peccato." (Salmo 19). È invece solo radicandoci sempre più
nel vivere il momento presente e aprendo di più il canale della
Vita di Dio in noi, che potremo buttare un fascio di luce nelle nebbie
delle nostre stupidaggini e diradarle, facendo venire in maggiore evidenza
in noi quello che conta davvero, l'accoglienza della vita che ci è
donata e i rapporti di amore.
Non siamo noi a dover potare. È
la vita stessa che ci pota, specialmente con l'avanzare dell'età,
e questo è anche normale, dato che è inevitabile che nella
vita ci siano cicli di crescita e di decrescita, di espansione e di contrazione.
Nella vita abbiamo delusioni, fatiche, malattie, allontanamenti. Speravo
in quell'avanzamento di carriera e invece sono andato indietro... Contavo
sulla presenza dei figli, e invece li vedo sempre più di rado...
Prima riuscivo a fare questo e quello, e ora non ce la faccio più...
Avevo un ruolo importante in famiglia e ora conto ben poco...
Non accettiamo la fatica e il fallimento
inevitabili nel nostro essere finiti, limitati. Non accettiamo i nostri
errori e gli errori degli altri che ci hanno condizionato. Non accettiamo
le potature. Ma che senso ha rifiutare ciò che esiste? Se mi sono
rotto un piede, come posso rifiutare che sia così? Certo, cercherò
di curarmi e guarire, ma devo iniziare con l'accettare ciò che è
ora.
Allora torniamo alla parola di Dio letta
oggi: il Signore afferma che le potature ci fanno portare più frutto!
Ci sembra impossibile, eppure anche questa può essere una buona
notizia, che la potatura cioè non è un danno e basta,
ma che si può coglierla come occasione di crescita. Come dicevo
prima, però, la cosa purtroppo non è automatica. Possiamo
rifiutarle, le potature, possiamo ribellarci. Possiamo arrabbiarci con
Dio, deprimerci, spegnendo così la vita dentro di noi... Oppure
possiamo scoprire l'occasione per andare sempre più all'essenziale,
possiamo scoprire che arrenderci alla vita è in realtà arrenderci
a Dio, abbandonarci nelle sue braccia. È un percorso necessario:
l'accettazione serena della vita, con i suoi rovesci, errori, contraddizioni,
concentra la linfa vitale della mia vita in modi inattesi e con risultati
che possono essere davvero sorprendenti, risultati che non si vedranno
tanto nella dimensione del fare, dell'efficienza, quanto in quella dell'essere
e del portare serenità intorno a noi.
Torniamo quindi alla necessità
e all'urgenza di recuperare l'unione con Cristo. Come fare? Certamente
osservare i suoi comandamenti, che poi vuol dire amarci gli uni gli altri,
come abbiamo visto ieri. Ma questo non può essere tanto il risultato
di un nostro sforzo di volontà quanto quello di accogliere l'amore
di Cristo per noi e costruire un rapporto personale, un rapporto di fiducia
e abbandono. E lo strumento principe resta la preghiera. Una preghiera
semplice, fatta non con la mente ma col cuore. Una preghiera in cui ci
si mette alla presenza del Signore così come si è, senza
maschere, con tutti i nostri limiti, difetti e debolezze, senza fare ragionamenti
su come pensiamo che dovremmo essere. Ad esempio, dopo aver calmato la
mente attraverso la concentrazione sui suoni o sulle sensazioni del corpo,
immaginare il Signore presente davanti a noi ed esprimergli i nostri sentimenti
solo con lo sguardo e col respiro, come se fossimo muti, sentimenti di
offerta, di ringraziamento, di fiducia, di pentimento, di abbandono...
così come ci vengono spontanei. Oppure immaginarci dentro un episodio
del Vangelo... siamo la Maddalena la mattina della resurrezione... immaginiamo
che Gesù ci chiami per nome... Come lo pronuncia? Cosa proviamo
a sentirci chiamati da Gesù? Siamo il cieco di Gerico, Gesù
non lo vediamo ma è lì davanti a noi che ci chiede: "Cosa
vuoi che ti faccia?". Oppure, come raccomandava Santa Teresa d'Avila, immaginare
Gesù davanti a noi e semplicemente guardarlo mentre ci guarda. Teresa
usava una formula molto breve: "Mira que te mira", "Guarda
che ti guarda", cioè nota che sta guardando te. E aggiunge due avverbi
molto importanti: "Guardalo mentre ti guarda - essa dice - amorevolmente
e umilmente". Sembra impossibile, vero? L'immagine che ci siamo
fatti di Gesù è quella di una persona dura ed esigente, qualcuno
che, pur amandoci, ci ama solo se siamo buoni. E invece lui ci ha amato
prima che noi rispondessimo al suo amore. E ci sta guardando anche con
umiltà, perché si è fatto nostro servo e nostro schiavo,
quello che ci lava i piedi e che liberamente muore la morte di uno schiavo
per amore nostro.
Potremmo fare mille propositi, ma non
c'è nulla che possiamo fare per Cristo che gli sia più gradito
che credere nel suo incondizionato amore per noi. Ed è anche
l'atteggiamento che porta alla maggiore unione con lui e ai più
grandi frutti spirituali!
Buon cammino di crescita nell'unione
col Cristo!